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Perché la Chiesa è tanto diffidente nei confronti di presunti veggenti e apparizioni?

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 22/05/18

La voglia di credere in qualcosa di decisivo che accade ai nostri giorni spinge talvolta a pretendere che la Chiesa abbracci con slancio ogni pretesa di esperienza mistica… Essa ha invece granitiche ragioni nel procedere coi piedi di piombo, e quanto più lo fa tanto più tutela proprio la fede dei cristiani. Ecco perché.
– Magnifico Abate, ho delle suore che dicono di avere delle visioni…Frustatele a sangue, vedrete che non ne avranno più.

Questo aneddoto non ha mai cessato di tornarmi in testa, fin dalla prima volta che don Peppino (buonanima) me lo raccontò: l’abate interpellato nella prima battuta doveva essere nientemeno che Bernardo di Chiaravalle, e a ricorrere ai suoi lumi era una sua omologa preoccupata dalle inquietudini di due giovani suore che polarizzavano da qualche tempo la vita della comunità.




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Non mi è mai riuscito di trovare una fonte che attesti il bizzarro apologo, e me ne rammarico molto da quando don Peppino non può più rispondere alla domanda: prima esitavo a fargliela, un po’ perché i modi di quel santo sacerdote sapevano essere ruvidi, all’occorrenza; un po’ perché la sua serietà e il suo rigore di storico sono sempre stati fuori discussione per tutti quanti hanno avuto la grazia di essere suoi alunni, suoi parrocchiani e/o suoi amici.

Non solo per ossequio alla statura del professore mi trattengo dal cassare l’apologo come mera diceria, ma soprattutto perché:

  1. se anche non fosse vero, esso sarebbe certamente verosimile;
  2. anche solo nella finzione letteraria, l’abate interpellato avrebbe sicuramente fatto bene a rispondere in siffatta guisa all’accorata badessa.

Non perché non vogliamo credere alle visioni o a particolari manifestazioni di grazia, ma proprio in quanto intendiamo accogliere simili fenomeni secondo i fini per cui essi giungono a interpellarci: è fuori da ogni ragionevole dubbio che ogni intervento di Dio nella storia umana produca un fine di salvezza individuale e collettivo; dunque dove delle persone pretendessero di avere delle visioni senza crescere nell’umiltà e nella carità (che sole esprimono fra i mortali la santità dell’Eterno), e dove tali visioni non producessero un frutto di bene nell’ambiente umano limitrofo… sarebbe ben difficile riconoscervi all’opera “il dito di Dio”.

Gnoseologia dello spirito secondo Dickens e secondo Shakespeare

È da ricordare che all’intelligenza umana, la quale procede sempre per via induttiva e deduttiva, dialogicamente, e mai per pura intuizione, un agente preternaturale (diciamo per chiarezza un demonio) può facilissimamente apparire soprannaturale (ciò che, in senso stretto, solo Dio è). A parte questo, anche la sola fisiologia umana può alterare le percezioni dei sensi, e paradossalmente un uomo che fondasse la propria fede sulle visioni (o sui racconti di visioni) assomiglierebbe in modo inquietante ai più cinici fra i materialisti, i quali appunto credono nelle cose perché si esperimentano (ovvero perché altri – i cosiddetti scienziati – le hanno sperimentate).




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Perfino il più materialista fra i personaggi della letteratura inglese, il dickensiano Scrooge, diffidava del defunto socio d’affari Jacob Marley, che tornava a fargli visita:

– Di che prova avresti bisogno per crederci, oltre a quella dei tuoi sensi?– Non lo so, disse Scrooge.– Perché dubiti dei tuoi sensi?– Perché – disse Scrooge – li influenza qualsiasi piccolezza. Basta un po’ di mal di stomaco per farli barare. Potresti essere un pezzetto di manzo indigesto, un’ombra di senape, una scaglia di formaggio, un frammento di patata mezza cruda. E qualunque cosa tu sia mi sai più di unto che di defunto.

Bravo Scrooge, veramente “loïco” e savio nella sua testarda incredulità: se queste cose non le avesse dette per stornare da sé il terrore dello spettro, sarebbe stato già un pezzo avanti. Invece stava indietro, come tutti noi anche quando pensiamo e diciamo cose esatte.

Un uomo più dolorante di lui e per questo meno incline al terrore aveva già vissuto un’analoga situazione in una pagina assai più alta di quella stessa letteratura. Ma il principe Amleto studiava teologia (e a Wittenberg!), conosceva a menadito i pro e i contra di quella e altre situazioni-limite. Difatti all’avvicinarsi dell’ombra paterna esclamava:

Angeli e ministri di grazia difendeteci! Sii tu uno spirito benefico o uno spettro infernale, esalino intorno a te profumi celesti o vapori d’inferno, siano i tuoi disegni pii o malvagi, tu vieni sotto forma sì sacra per me, ch’io vuo’ parlarti; io ti chiamerò Amleto, re, padre, monarca danese… Oh! rispondimi; non far che quest’ansia mi uccida! Dimmi: perché le tue sante ossa tumulate squarciarono il loro funebre lenzuolo? perché il sepolcro, in cui ti vedemmo placidamente adagiato, dischiuse i suoi poderosi marmi per rigettarti alla luce di nuovo? Che può significare, che tu, corpo morto, rivesta l’armatura d’acciaio ed erri così al baglior della luna, facendo spaventosa la notte? E noi, trastulli di natura, perché siamo per te commossi da sì fiera agitazione e compresi da pensieri che avanzano la portata dello nostre anime? Di’, perché ciò? A qual fine? che dobbiam fare?




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Amleto osa, perché ama e soffre, a differenza di Scrooge, che nulla sa di Dio proprio in quanto non soffre e non ama: ma pure nell’azzardo Amleto non perde di vista la questione essenziale di ogni visione che si rispetti – il fine.

Se una visione non porta in qualche modo beneficio – magari in un lago di sangue, mediante il quale però si ristabiliscano il diritto e la verità tra gli uomini – essa è certamente una trappola. Sarà infatti proprio il fine dell’apparizione del nobile Re (che sta in purgatorio) e del vile speculatore (che invece è dannato) a mettere in moto le vicende della tragedia shakespeariana e del Canto di Natale. Didascalico e morale il secondo, sublime e mistica la prima: in ogni caso è un evento non naturale a sbloccare le situazioni di partenza.

Ma… la Bibbia cosa dice?

Nell’invocazione agli “angeli e ministri di grazia” Amleto afferma implicitamente di star muovendo passi in direzione oscura e incerta, eppure è la vicenda di Scrooge quella che in modo più flagrante sembra contrastare la Rivelazione biblica. Chiunque legga il romanzo ottocentesco senza essere completamente digiuno della Sacra Pagina è colto dal sospetto che l’autore abbia voluto immaginare come sarebbe potuta andare la storia dei parenti del ricco epulone di Lc 16 se Dio (ovvero Abramo) non avesse dato risposta negativa alla supplica del dannato.

In quel tempo Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Ma Abramo rispose: «Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». E quello replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti».

Lc 16, 19-31

Eppure saremmo ingiusti se affermassimo sic et simpliciter che la Bibbia è scettica nei confronti delle visioni: la disputa centrale del giudaismo “impegnato” all’epoca di Gesù era tra farisei e sadducei, ovvero tra quanti credevano al soprannaturale e alla libertà di intervento di Dio nel mondo e quanti negavano questo e altri assiomi teologici. I libri di Daniele e di Tobia, ma pure quelli più antichi, come i libri storici e certi tratti della Genesi, sono abbondantemente farciti da visioni: e se episodi come quello di Gedeone narrato in Gdc 6 mostrano una certa smaliziata diffidenza nei confronti delle pretese apparizioni, tuttavia ancora l’ultima pagina della Bibbia (peraltro l’Apocalisse è uno dei libri dalla composizione più tarda e dall’integrazione nel Canone più dibattuta) reca il maestoso affresco di una visione universale e definitiva.




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L’ultima visione cattolica, appunto, cioè destinata a parlare a tutti gli uomini e a costituire per ciascuno un elemento cogente della fede cristiana. Con la morte dell’ultimo apostolo, che un’antica tradizione individua appunto nell’autore dell’Apocalisse, si è conclusa la stagione dei testimoni della risurrezione.

Ciò che accadde con questo fondamentale passaggio è qualcosa che non ha eguali nella storia dell’umanità: ricordo di aver letto in un bel libro di Karl Löwith che «fino a quando gli uomini non disporranno se non di una sola vita, tutti cercheranno di ravvisare nei pochi anni della loro esistenza gli eventi apicali dell’intera storia dell’universo». Basta poco a capire che una tale pretesa sarebbe ingenua come quella di un’intera popolazione in cui tutti i singoli individui fossero sinceramente convinti di avere in mano il biglietto vincente della lotteria nazionale. Eppure ciò che il cristianesimo ha prodotto con la propria teologia della storia è precisamente il superamento di quella spontanea illusione collettiva: il cardine di tutta la storia è collocato in un evento passato – la pasqua di passione-morte-risurrezione di Cristo – che trascende tutti i tempi e si proietta già fin d’ora sullo sfondo della fine dei tempi. L’apocalittica intertestamentaria, quindi, ha trovato un compimento e una nuova apertura in quella neotestamentaria: pensare alla fine del mondo (che certamente avverrà e sarà anche un evento storico) significa quindi contemplare il giudizio che su ogni realtà, mondana e spirituale, dà la croce di Cristo.


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Per questo motivo la Chiesa non attende più alcuna rivelazione pubblica, prima del ritorno di Cristo, e anzi tanto per stare sicura si mantiene in un atteggiamento di prudente diffidenza anche nei confronti di quelle private. Non si tratta – come alcuni esaltati millenaristi di tutti i tempi hanno vanamente denunciato – di una “apostasia dalle realtà di fede” (le quali si condenserebbero a quanto pare nella credenza in angeli e demonî), ma proprio della fedele custodia della fede trasmessa da Cristo agli apostoli:

[…] i suoi discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».

Gesù rispose: «Guardate che nessuno vi inganni; molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono il Cristo, e trarranno molti in inganno. Sentirete poi parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi; è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato. Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine».

Mt 24, 3-13

Ecco perché, sì, proprio un contemplativo come san Bernardo potrebbe aver dato quel consiglio cruento alla badessa: «Frustatele a sangue». Un rimedio molto accorto in ogni caso: sia se le due si fossero ingannate con malizia sia se si fossero illuse in buona fede (in ogni caso avrebbero smesso subito)… sia se veramente le due fossero state designate come destinatarie di fenomeni mistici straordinari – e facilmente si può pensare a Giovanna d’Arco, che proprio nell’umiliazione e nel tradimento da parte di segmenti di Chiesa maturò la propria “ora della gloria”. Ma difficilmente lo scarno caso esposto dall’apologo sembra lasciar intravvedere un’autentica opera dello Spirito: due veggenti in un monastero senza un messaggio preciso, uno scopo, qualcosa di diverso dal solo, immotivato (e odioso) privilegio di vedere l’invisibile.




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Bernardo – quello vero o quello della “letteratura” apocrifa – vide rapidamente nel racconto della badessa i segni di un’autoreferenzialità, di una superbia, soprattutto di una futile discordia che guidò in tal senso il discernimento del Doctor mellifluus. E chi lo conosce per altro che per l’immortale pagina dantesca – ad esempio in riferimento alla disputa con Pietro Abelardo – sa bene con quanta virulenza il santo abate sapesse accanirsi contro quelli che gli parevano nemici della fede. E sì, può ben darsi il caso di una discordia necessaria, nella Chiesa, anche messa in luce da visioni o altre grazie mistiche straordinarie (si pensi a Lourdes o ad altri casi simili): deve però diventare chiaro in un tempo ragionevolmente breve quale sia l’utile per la Chiesa, in che cosa splenderebbe di più la gloria di Dio per certe frizioni. Soprattutto, neanche per un istante possono esserci ombre, pur tenuissime, sulle virtù evangeliche dei presunti veggenti.

Il criterio-principe di discernimento delle “rivelazioni private”

E questo è tanto vero che fu proprio a Bernardo – e questa è storia ben documentata – che si sarebbe appellata quella straordinaria e concretissima donna che fu santa Ildegarda di Bingen. Bernardo rassicurò allora la curia romana quanto all’ortodossia di Scivias, il libro delle rivelazioni della badessa tedesca. Come si vede, la Chiesa non è mai stata “credulona” di fronte a quanti pretendevano di esperire particolari manifestazioni della grazia di Dio… quel che è vero, anzi, è che i riconoscimenti dei più grandi fenomeni mistici della storia del cristianesimo sono venuti proprio per opera di uomini e donne con i piedi ben saldi a terra e nient’affatto inclini a dar credito a esaltati e millantatori.

Il fine, dunque: ecco cosa conta. La domanda “cosa sei venuto a fare?” sarebbe finita secoli dopo nel libretto aureo dell’Imitazione di Cristo, ma era noto che Bernardo la rivolgesse sovente a sé stesso: «Bernardo, cosa sei venuto a fare?» – cosa cerchi in quello che fai, quando scrivi ai papi, quando perseguiti Abelardo, quando erigi monasteri e deponi abati? È la domanda che il pavido Scrooge e l’impavido Amleto ponevano alle loro visioni: «Perché sei qui?».

Ecco, quando la risposta è capace di sbloccarci dai nostri stalli e di rimetterci nella carreggiata del Vangelo, allora quella visione, quella rivelazione, quella monizione, sono cose buone e anzi ottime. Diversamente, sarebbero al più passabili contraffazioni della Scimmia di Dio.

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