Una tradizione iconografica ferrea, un versetto strano, quasi incomprensibile e per certi aspetti scomodo. È dalla mancata sinergia di questi elementi che saltano fuori, di tanto in tanto, i Dan Brown a favoleggiare di Maddalene e altre stramberie. Mentre la verità del testo, custodita dalla fede cattolica, è molto più intrigante ed “esoterica”…
L’iconografia cristiana ci ha consegnato, perlomeno dai tempi di Giotto, la netta identificazione tra “il discepolo amato” e l’apostolo Giovanni, a sua volta identificato con l’Evangelista e con l’Apostolo. A ben vedere, l’unico indizio di plausibilità di questa attribuzione è proprio, paradossalmente, l’indeterminatezza che condivide con Giovanni, il più sfuggente e misterioso dei protagonisti della nascente vicenda cristiana.
Il mistero delle comunità giovannee
Non solo infatti non sappiamo alcunché di preciso sull’identità del discepolo amato, ma una medesima vaga aleatorietà aleggia su tutta la vita delle comunità giovannee in età subapostolica. Sembra un dato trascurabile, ma se si pensa che dalle misteriose comunità giovannee sarebbe sorto Policarpo di Smirne, col quale afferma di aver avuto contatti Ireneo di Lione – primo autore noto della famosa identificazione… – si vede che non stiamo cercando di obscurum per obscurius inslutrare, bensì riconosciamo un punto in cui diversi misteri si annidano. Così lo descrive Raymond Brown nel suo storico Giovanni:
La prima questione che ci si deve porre […] concerne il valore della tradizione che il Quarto Vangelo provenisse da Giovanni, un discepolo del Signore. Il Vangelo stesso parla del discepolo prediletto, che riposò sul petto del Signore: Ireneo intendeva forse semplicemente congetturare che questo innominato discepolo fosse Giovanni? C’è una buona indicazione che così non fosse, perché, secondo Eusebio (Hist. IV, 14,3-8 […]), Ireneo ottenne la sua informazione da Policarpo, vescovo di Smirne, che aveva ascoltato Giovanni. Se si può stabilire una catena di tradizione da Giovanni a Policarpo fino a Ireneo, allora la testimonianza di Ireneo sull’autore è veramente molto valida. Ma la correttezza della catena di tradizione è stata contestata per diverse ragioni.
Raymond Brown, Giovanni cxiii
Tali ragioni riguardano molte questioni accessorie, come le singole tradizioni sul destino di Giovanni figlio di Zebedeo (secondo alcuni, ad esempio, sarebbe morto giovane e dunque non potrebbe essere l’autore del Vangelo più tardo e più maturo). La più circostanziata, tuttavia, cioè quella che analizza la filiera Giovanni-Policarpo-Ireneo, critica la stessa attendibilità generica dei ricordi del Vescovo di Lione, considerando ad esempio come su Papia di Gerapoli Ireneo riporti un’informazione inesatta (dice infatti che anche Papia sarebbe stato discepolo di Giovanni, mentre quello stesso afferma di non aver conosciuto Giovanni):
Se Papia conobbe Giovanni solo attraverso intermediari, e Ireneo semplificò il rapporto tra Papia e Giovanni, come possiamo sapere che non semplificò anche il rapporto tra Policarpo e Giovanni? Certo, Ireneo dice di aver conosciuto Policarpo personalmente, mentre non pretende di aver conosciuto Papia. Tuttavia, il fatto che Ireneo sarebbe stato molto giovane al tempo in cui pretende di aver conosciuto Policarpo rende almeno possibile la confusione.
R. Brown, Giovanni cxiv-cxv
E poi quanti Giovanni c’erano in attività in quella zona? E di quale zona stiamo parlando, di preciso? Come si vede, la questione è costellata di domande probabilmente destinate a restare insoddisfatte. Per contro, resta quell’unica testimonianza di Ireneo, che assomiglia a una candelina accesa nel buio: non illuminerà granché, ma è l’unico punto visibile tutt’intorno.
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E per questo anche Benedetto XVI, nel suo Gesù di Nazaret, ammette di accogliere la tradizione di Ireneo su Giovanni figlio di Zebedeo come autore del Vangelo.
Altra questione, poi, è capire se sia Giovanni anche questo “discepolo amato”. In effetti l’unico Giovanni di cui si parla nel quarto Vangelo è il Battista (se si eccettua il patronimico di Simon Pietro, che i sinottici definiscono “figlio di Giona”), e i “figli di Zebedeo” vengono citati una volta sola, in coppia e en passant (21, 2), per giunta nel capitolo 21, che evidentemente è un’aggiunta redazionale. Risulta evidente, dunque, il motivo fondamentale per cui “il discepolo amato” è candidato a essere l’alter ego di Giovanni (e la cosa costituirebbe di per sé un rafforzamento dell’attribuzione): il figlio di Zebedeo, tanto importante nei Sinottici e negli Atti, latita in modo sospetto nel Quarto Vangelo.
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Ed è senz’altro vero ciò che dice Matteo (anche lui, del resto, testimone oculare secondo la Tradizione): «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26, 56). Il che non toglie che qualcuno di loro, seppur “a distanza di sicurezza”, seguì Gesù: Matteo parla del solo Pietro, che «intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile» (Mt 26, 69). Giovanni però aggiunge importanti dettagli su come Pietro, pescatore galileo, riuscì a sgusciare «con Gesù nel cortile del sommo sacerdote» (Gv 18, 15): è stata la compagnia di un non meglio precisato “altro discepolo” (qualificato però del dimostrativo “quello”) a ottenergli il pass per entrare. Un discepolo di Gesù che non si vuole nominare ma che viene indicato come “quello” che conosce il sommo sacerdote e perfino la sua portinaia (Gv 18, 16): alla gran parte degli esegeti sembra ben più che plausibile che l’altro discepolo – chiunque egli fosse – debba identificarsi con “il discepolo amato” (un argomento è la consuetudine particolare che in più di un episodio Simon Pietro mostra di avere con lui); certo è che quando il Quarto Vangelo ci si mette, in toni sibillini e allusivi, non è secondo ad alcun oracolo.
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Una caratteristica interessante del “discepolo amato” è che – a differenza di quanto accade per “Pietro, Giacomo e Giovanni” nei Sinottici – egli fa la sua comparsa unicamente nella seconda parte del Quarto Vangelo (13, 23-25; 19, 25-27; 20, 1-10), cioè in quello che gli esegeti chiamano “libro della gloria” o “libro dell’ora” (più una ricorrenza – 21, 7.20-24 – nel capitolo 21, comunemente chiamato “secondo finale” per le caratteristiche che lo fanno sembrare un’aggiunta redazionale posteriore alla morte dell’Evangelista). Il Vangelo secondo Giovanni è infatti solitamente diviso in una prima parte (2-12), detta “libro dei segni”, e in una seconda (13-20+21) di cui abbiamo già ricordato il nome. Davanti a una simile distinzione anche il più profano dei lettori si rende conto dello “sbilanciamento” con cui Giovanni dedica alla Pasqua di Gesù quasi la metà dell’intera opera e praticamente due terzi dell’altra parte. Matteo (giusto per dare un’idea) comincia il racconto della Passione al capitolo 26 (e consta di 28 capitoli).
Il discepolo e la donna
Il Vangelo di Giovanni è pieno di acutissime corrispondenze, rese anche più intricate e misteriose dal fatto che l’evangelista usa un vocabolario relativamente ridotto formato da parole che, necessariamente, aumentano invece il proprio spettro semantico (luce, vita, fede, sono parole che tornano ossessivamente, in Giovanni, come pure i verbi credere, rimanere e altri): una delle corrispondenze più significative, però, è quella che c’è tra la scena della croce (Gv 19) e le nozze di Cana (Gv 2). Sono le uniche due scene del Quarto Vangelo in cui è presente Maria, che in entrambe viene chiamata “donna” da Gesù: a Cana – dove Gesù dice: «Non è ancora giunta la mia ora» (2, 4) – comincia il libro dei segni; sul Golgota si compie il libro dell’ora – «Tutto è compiuto» (19, 30). Che pure a Cana fossero presenti i primi discepoli di Gesù, venuti con lui dalle rive del Giordano, è chiaro nel testo (2, 2): evidentemente, però, la presenza discepolare non ha lì il peso che riveste qui, dove il discepolo è al centro della scena tra il Figlio e la Madre.
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Quell’azione – l’affidamento in adozione del discepolo alla Madre e la consegna in custodia della Madre al discepolo – è la penultima azione di Gesù crocifisso. Brown scrive infatti:
L’azione di Gesù relativa alla madre e al Discepolo Prediletto completa l’opera che il Padre ha dato da fare a Gesù e adempie la Scrittura. Tutto ciò implica qualcosa di più profondo dell’affetto filiale […].
R. Brown, Giovanni 1150.
Ora, per lunga consuetudine con questa pagina immortale siamo spontaneamente portati a proiettarci nella scena al posto del discepolo amato (una delle principali funzionalità del suo misterioso anonimato), e interpretiamo così il testo come l’invito ad affidarci a Maria chiedendole di prendersi materna cura di noi. Tale interpretazione è chiaramente devota e va benissimo, ma dobbiamo rilevare che essa non fece capolino nella letteratura cristiana prima di Giorgio di Nicomedia (IX secolo) e di Papa Gregorio VII (XI secolo). Dunque cosa intendeva probabilmente l’Evangelista, componendo il Vangelo?
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Già da Origene (III secolo) si attesta la lettura per cui il discepolo amato sarebbe l’immagine di ogni cristiano, mentre dobbiamo aspettare Ambrogio (seconda metà del IV secolo) per leggere a chiare lettere che Maria sotto la croce è figura della Chiesa: il punto è che tale figura è lo sviluppo organico del precocissimo titolo mariologico di “nuova Eva”. La cristologia del nuovo Adamo è attestata già nel corpus paulinum, e la mariologia della nuova Eva l’avrebbe seguita di lì a poco: questo non vuol dire, malgrado certe ironie di Fabrizio De André, che si delinei un rapporto edipico tra Figlio e Madre, ma bensì che l’ora il cui primo segno fu un matrimonio doveva essere un parto. E che la croce sia analoga a un parto è Gesù stesso a dirlo (e lo dice solo in Giovanni):
La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo.
Gv 16, 21
E “la donna” è appunto colei che Gesù per due volte chiama “donna”, cioè Maria, che come Eva «si chiama donna perché dall’uomo è stata tolta» (Gen 2, 23), ossia dal Figlio riceve tutto, proprio nel suo essere Madre, e porta il nome di Eva «perché fu la madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20). È Maria che finalmente può dire: «Con l’aiuto del Signore, io ho procreato un uomo» (Gen 4, 1). Dunque il discepolo amato non è solo “il cristiano”, ma il principio di una nuova creazione, è l’emblema dell’umanità rinnovata.
L’esigenza di rinascere
E rinnovata da cosa? Risponde il colloquio notturno con Nicodemo, che l’Evangelista mette nel capitolo successivo a quello delle nozze di Cana:
Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui». Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». Gli disse Nicodèmo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito». Replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?».
Gv 3, 2-9
Il discepolo amato è appunto colui che rinasce dall’alto (della croce), donde scendono l’acqua (19, 34) e lo Spirito (19, 30), e quella in cui nasce è l’ora del grande parto in cui la nuova Eva diventa madre di tutti i viventi. La domanda di Nicodemo, però, non è peregrina: «Come si può rientrare nel grembo della madre per rinascere?». E la risposta di Gesù, evasiva come ogni risposta che non possa ancora essere data apertamente, tuttavia non ha nulla contro il grembo e la madre: Gesù invita semplicemente Nicodemo a non fissarsi sul senso carnale delle sue parole. Non si può rinascere da dove si è già nati: occorre una nascita radicalmente nuova. Che tuttavia ha bisogno di un grembo, come tutte le nascite.
L’utero di Dio
Nicodemo aveva usato la pudica e generica parola “grembo”, mentre dieci capitoli dopo l’Evangelista si premurerà di essere più tecnico, usando il termine medico “utero”. Dove si legge questa parola? Ma proprio nella prima ricorrenza del sintagma “il discepolo amato”!, in Gv 13, 23: egli è infatti presentato come «colui che stava disteso nell’utero di Gesù» [«ἦν ἀνακείμενος εἷς ἐκ τῶν μαθητῶν αὐτοῦ ἐν τῷ κόλπῳ τοῦ Ἰησοῦ, ὃν ἠγάπα ὁ Ἰησοῦς» – «era sdraiato uno dei suoi discepoli nell’utero di Gesù: quello che Gesù amava»]. Uno dei versetti più fantasiosamente e maldestramente interpretati del Quarto Vangelo! Normalmente si legge la traduzione: «Si trovava a tavola al fianco di Gesù» (probabilmente anche sulle vostre bibbie). L’abissale distanza dal testo d’origine si spiega con la ricostruzione culturale delle usanze conviviali a tavola, perché si ipotizza che la cena avvenne su dei triclinî disposti obliquamente alla tavola, e quindi ciascuno darebbe le spalle al commensale a sinistra e avrebbe di fronte quello a destra. Come poi si passi da “di fronte” a “nell’utero” è arcano che continua a sfuggirmi, e difatti la più comune delle traduzioni italiane sceglie il morbido compromesso di “al fianco”. Tutto questo continua a sembrarmi un bizantinismo fondato su un’ipotesi non verificabile: preferisco fidarmi del solito Origene, che proprio in quella stramba locuzione (stramba e assurda, dacché Gesù è un individuo maschio e non un ermafrodito) individua una spia per il lettore attento. Nicodemo aveva parlato di “grembo”, sì, ma già prima era ricorso il sintagma “nell’utero”.
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Lo si era usato, con una variante minima ma importante, per descrivere proprio il rapporto del Figlio con il Padre: «Dio nessuno lo ha mai visto: Dio unigenito, quello che è nell’utero del Padre, quello lo ha rivelato» [«Θεὸν οὐδεὶς ἑώρακεν πώποτε· μονογενὴς θεὸς ὁ ὢν εἰς τὸν κόλπον τοῦ πατρὸς ἐκεῖνος ἐξηγήσατο» Gv 1, 18]. Chi legge il greco potrà notare che il Figlio è di fronte al Padre con un moto a luogo figurato, mentre è uno stato in luogo figurato quello che caratterizza il discepolo amato nei confronti del Figlio. La differenza è parlante: il Padre e il Figlio sono “una cosa sola” (Gv 10, 30), e il Figlio può stare “nel Padre” solo nel senso di un dinamismo di eterno amore, non certo come se potesse esservi racchiuso. Tutto il contrario per il discepolo, che può entrare in quel dinamismo solo a patto di “rinascere dall’alto”, cioè di stare – verbo d’oro di Giovanni! – nell’utero di Gesù. E sì che Gesù l’aveva spiegato per filo e per segno, proprio durante “il travaglio”:
Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi.
Gv 14, 19-20
E ancora:
Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.
Gv 15, 5-10
Il discepolo amato è dunque, per così dire, “il feto dell’amore di Dio”, il quale è partorito alla vera gioia nell’ora della gloria – che viene in ogni vita – ed è la Croce.
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Incredibile a dirsi, ma questa lettura (tutto sommato semplice e lineare) viene poco recepita: tutti notano la stranezza dell’espressione in Gv 13, 23, tutti la annotano ma quasi tutti preferiscono girarle attorno con le già ricordate questioni di antropologia culturale. Tra i grandi contemporanei solo Ratzinger, a quanto ne so, ha fatto propria l’intuizione di Origene.
Una vita da risorti col Risorto
E per questo chiediamo a Benedetto XVI di darci una mano nell’indagare le dinamiche della vita trasfigurata del cristiano, quando “il discepolo amato” è venuto alla luce e ha riconosciuto «la tomba del Cristo vivente, la gloria del Risorto». Scriveva difatti Papa Ratzinger nel secondo volume di Jesus von Nazareth, riguardo all’incontro dei discepoli sul lago di Galilea (Gv 21):
È per così dire un riconoscere da dentro, che però resta ancora contornata dal mistero. Infatti dopo la pesca, quando Gesù li invita a mangiare, si avverte ancora una certa estraneità. […] Essi sapevano da dentro, non tramite l’osservazione e la vista corporale.
Questa dialettica di riconoscimento e non-riconoscimento dice dallo stile dell’apparizione. Gesù arriva attraverso porte chiuse, all’improvviso sta in mezzo a loro. E allo stesso modo all’improvviso scompare, come alla fine dell’episodio di Emmaus. È decisamente corporeo. Eppure non è legato alle leggi della corporeità, alle leggi dello spazio e del tempo. In questa meravigliosa dialettica di identità e alterità, di vera corporeità e libertà dai vincoli del corpo si manifesta la particolare e misteriosa essenza della nuova esistenza del Risorto.
Benedetto XVI – Joseph Ratzinger, Jesus von Nazareth II, 291
A tale nuova identità è chiamato a conformarsi profeticamente anche il cristiano, cioè il discepolo amato che sia finalmente rinato dall’acqua e dallo spirito dell’esperienza pasquale.