Mentre si moltiplicano i commenti e gli interventi riguardo all’eroico sacrificio del gendarme di Trèves, un’ombra resta in sordina: «Beltrame fu davvero massone?». E se sì, questo che cosa cambia? Come si fa a dare una risposta? Anzitutto con una lettura intelligente, come quella ispirata da François-Xavier Bellamy su Le Figaro di ieri: «Noi abbiamo l’inesprimibile sentimento che quest’uomo ci abbia salvati». E questo sentimento richiede adeguata riflessione.
La vicenda di Arnaud Beltrame, il gendarme francese offertosi a un islamista in riscatto di una sconosciuta da quello tenuta in ostaggio, continua a far versare inchiostro, in Francia e fuori. Domani, mercoledì 28 marzo, a partire dalle 11:30, il presidente della Repubblica Emmanuel Macron presiederà agli Invalides un omaggio nazionale al luogotenente-colonnello. Attenzione: “omaggio nazionale” si definisce una particolarissima e rarissima onorificenza tributata dalla massima carica dello Stato francese. L’ultimo a vedersela tributata è stato il grande accademico di Francia Jean d’Ormesson (la cerimonia di “omaggio nazionale” è quasi totalmente identica a quella di “ossequi nazionali”: la sola differenza è che la prima si dà per un decreto del Presidente della Repubblica ed è totalmente a carico dello Stato).
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Insomma, Beltrame non è stato ancora seppellito e già si parla di dedicargli strade e monumenti, nella notte scorsa un noto artista di strada gli ha dedicato un’opera a Port-Marly.
Il dato evidente è che tutti si affrettano a rendere omaggio a quest’uomo retto e coraggioso. In tale contesto è emerso un tema un po’ più controverso, dato che uno dei primi arrivati nella “corsa all’omaggio” è stato Philippe Chaurel, Gran Maestro della Grande Loge de France (pure i massoni su Facebook! O tempora, o mores!), il quale ha salutato l’ufficiale caduto come un “fratello” dell’Oriente di Rueil-Nanterre.
In una comunicazione successiva Chaurel ha spiegato di aver stabilito i toni e i contenuti di quella nota (effettivamente insolita, per un’associazione semiopaca come la massoneria) con “la famiglia” di Beltrame. Quindi con chi? Non è stato fornito dettaglio ulteriore. Il giorno dopo La Croix dava per assodata l’affiliazione massonica, spiegando però come Beltrame
avesse da qualche anno preso le distanze dalla massoneria, stando alla testimonianza di una persona vicina.
I colleghi di Aleteia France hanno contattato anzitutto l’ordinario militare in Francia, mons. Antoine de Romanet, che non ha esitato a tracciare un ardito parallelismo tra il sacrificio del gendarme e quello del Redentore:
Il sacrificio di sostituzione di Arnaud Beltrame riveste un carattere tutto particolare per i cattolici, perché coincide con l’ingresso nella Settimana Santa. Ci aiuta a meglio comprendere il gesto redentore del nostro Salvatore. Per i cristiani, la Settimana santa […] è rischiarata dal sacrificio e dalla morte di un uomo inabitato da Cristo. Un gesto di offerta, di dono, di pace, di umanità, di oltrepassamento. Venerdì Arnaud Beltrame, col sacrificio della propria vita, ha fatto scendere un raggio di luce dal cielo sulla terra. Ha elevato il mondo in semenza di eternità.
Subito dopo gli stessi hanno raggiunto mons. Dominique Rey, vescovo di Fréjus e Toulon nonché pastore particolarmente attento alle infiltrazioni massoniche nella Chiesa. Il prelato ha sobriamente commentato:
Non conosco personalmente il cammino di fede di Arnaud Beltrame. Ciascuno segue un itinerario che gli è proprio, di certezze e interrogativi. Arnaud Beltrame ha cercato Cristo.
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E la sua dichiarazione trovava appoggio e corrispondenza in quella di padre Jean Baptiste Golfier, monaco dell’abbazia di Sainte Marie de Lagrasse, che dopo una qualche esitazione si era deciso a rilasciare una nota pubblica (peraltro riportata e tradotta anche da noi).
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La sposa del gendarme, Marielle, ha rilasciato una breve dichiarazione a La Vie:
Ci siamo lungamente preparati al matrimonio religioso, grazie al solido accompagnamento dei monaci di Lagrasse. La celebrazione doveva aver luogo in Bretagna perché lì Arnaud aveva le sue radici. E poi era molto vicino all’abbazia di Timadeuc, dove abbiamo fatto molti ritiri.
[Arnaud] non smetteva mai di migliorarsi, di essere il migliore sposo possibile e di rendermi felice. Mi sosteneva e mi conduceva verso l’alto, sempre con molto rispetto.
Le esequie di mio marito avranno luogo in piena Settimana santa, dopo la sua morte di venerdì, proprio a ridosso delle Palme, e questo non è anodino ai miei occhi. È con molta speranza che attendo di festeggiare la risurrezione di Pasqua con lui.
Arnaud aveva una forza di volontà fuori dal comune. […] Per lui, essere gendarme voleva dire proteggere. Ma non si può comprendere il suo sacrificio se lo si separa dalla sua fede personale. È il gesto di un gendarme e il gesto di un cristiano. Per lui le due cose sono legate, non si può separare l’una dall’altra.
Parole importanti, che delineano la psicologia di un uomo fortemente e intimamente votato alla perfezione. Qualcuno potrà forse stupirsi di tanto baccano, fatto per di più già a corpo ancora caldo, e si ricorderà il detto sibillino di Gesù:
Dov’è il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi.
Lc 17, 37
Ma sarebbe ingeneroso, oltre che stupido, accusare di sciacallaggio tutti quelli che s’interessano alla morte di Beltrame e rivendicano con orgoglio una qualche ascendenza: in tale contesto, anzi, appare perfino apprezzabile la cauta prudenza della Chiesa, che subito ha riconosciuto e benedetto un proprio figlio eccellente, ma che si è guardata dall’imbastire frettolose canonizzazioni.
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Eppure ancora oggi in Francia tutti s’interessano ad Arnaud Beltrame, da Macron in giù, passando per i massoni, i writers e giù giù… fino all’ultimo monaco di provincia. Questo è già in sé un fatto notevole, e mi pare che la disamina più intelligente e complessiva l’abbia scritta su Le Figaro di ieri François-Xavier Bellamy, giovanissimo professore di filosofia (nonché vicesindaco di Versailles).
Poiché la trovo illuminante per molti aspetti, e visto che l’autore stesso ne ha pubblicato l’integrale sul proprio blog, la traduco integralmente di seguito.
«In onore dell’Onore…»
di François-Xavier Bellamy
«In onore dell’Onore, la bellezza del dovere…»
Apollinaire
Le azioni umane non sono avvenimenti aleatori. Un fenomeno fisico può spiegarsi mediante circostanze immediate; ma per comprendere la scelta di un uomo, bisogna rimandarla a una storia da cui nessun gesto è scorporabile. Non è sul campo di battaglia, dice Aristotele, che si diventa coraggiosi: i nostri atti sono sempre il risultato di una disposizione coltivata poco a poco. Nella decisione più spontanea s’esprime infatti un’intenzione – attraverso quella un progetto, una certa idea della vita, e la concezione del mondo nella quale essa è potuta maturare; e di lì tutta una cultura, in seno alla quale si è formata poco a poco la vita interiore di cui la nostra azione non è, finalmente, che l’emanazione visibile.
Al mattino di venerdì scorso, il luogotenente-colonnello Arnaud Beltrame è uscito per andare al suo posto, come faceva ogni giorno dalla sua prima missione, venti anni prima. Non poteva sospettare di star uscendo per l’ultima volta. Ma il dono di sé non si improvvisa; ed è la somma della generosità coltivata nei giorni ordinari che si è istantaneamente condensata, di fronte al pericolo, in questa inaudita iniziativa. Anche senza conoscere i dettagli dei fatti, è certo che l’ufficiale non ha dovuto riflettere molto: una tale scelta, nel fuoco dell’azione, non può che essere semplice, tanto semplice quanto appare umanamente impossibile; come i gesti virtuosi di un grande sportivo, di un grande artista, paiono semplici perché sono di fatto l’espressione di un’abitudine lungamente elaborata. Arnaud Beltrame, da parte sua, aveva scelto per mestiere di servire: si era formato, allenato ed esercitato per questo. Anche senza aver avuto la grazia di conoscerlo, basta leggere le poche righe che raccontano il suo gesto per comprendere che quest’uomo, oltrepassando il proprio dovere di ufficiale, ha semplicemente tirato le somme della scelta che aveva fatto – e che l’aveva fatto. Un simile atto non nasce per caso, non si inventa sul momento. E non sarebbe mai arrivato, se non fosse stato preparato dallo sforzo di tutta una vita; dallo spirito di un intero corpo, quello della Gendarmeria Nazionale, della comunità militare; e in ultima analisi dall’anima di un intero popolo.
È senza dubbio per questa ragione che istintivamente, attraverso lui, tutta la Francia si è sentita toccata. Uno spirito freddo potrebbe trovare strano tutto ciò. Ci sono state altre vittime, a Carcassonne e a Trèbes, che non meritano meno di lui il nostro cordoglio. E poi, per un secolo segnato dall’imperativo della produttività e dall’ossessione dei numeri, l’atto di questo ufficiale non toglie alcunché alla triste vicenda, poiché il terrorista ha ucciso: Arnaud Beltrame ha dato la sua vita per un’altra vita. Una vita per una vita. Alla fine il conto è lo stesso: in termini di big data, l’avvenimento è invisibile. Per l’etica utilitaristica che tanto sovente prevale oggi, il suo gesto non è servito ad alcunché; e ho pure potuto leggere che taluni finivano col criticarlo: dopotutto, domani ci saranno altri terroristi, un gendarme ben addestrato sarebbe più utile da vivo.
Ma ecco, noi abbiamo l’inesprimibile sentimento che quest’uomo ci abbia salvati. Tutti. E non solamente quella donna innocente strappata alla violenza, ma tutti noi, attraverso lei. E io credo che in effetti, malgrado le apparenze, Arnaud Beltrame abbia riportato una vittoria assoluta, mediante il dono della propria vita, contro l’odio islamista – e contro le nostre subsidenze interiori, che avevano permesso a quest’odio di scavarsi un passaggio.
Vittoria contro il terrorista: il suo scopo era di strappare vite per creare la paura… e la sottomissione, che quella prepara. Ma non si può prendere niente a chi dona tutto… Collettivamente, attraverso questo ufficiale, il nostro popolo intero non è più una vittima passiva; egli ci restituisce l’iniziativa. Morire non è subire, quando si sa perché si muore. Dopotutto, nulla gli jihadisti ammirano tanto quanto i martiri.
Ma i martiri, i nostri, servono la vita. E ricordandocelo Arnaud Beltrame, come i suoi fratelli d’armi che con lui si sono assunti quel rischio, ci salvano anche da noi stessi e dai nostri propri oblii… Abbiamo finito per costruire un mondo in cui questo dono era impensabile: una società atomizzata, fatta di particelle elementari che entrano in contatto o in contrasto in funzione dei propri calcoli; una società di consumatori preoccupati del loro solo benessere, composta di caste e di comunità di interessi, più che di cittadini coscienti dell’essenziale comune che li lega; una società in cui la politica stessa poteva dissolversi nel progetto terminale dell’“emancipazione dell’individuo”. Ma in questa società ossessionata dalla rivendicazione dei diritti il sacrificio di Arnaud Beltrame sarebbe diventato presto impossibile; infatti perché si dia un tale abbandono bisogna anzitutto sapere che il senso della vita umana si trova nel dono che ciascuno fa di sé stesso. Non nel contratto e nello scambio ben calcolati, che rinchiudono ogni uomo nella solitudine, ma nel contributo che diamo a opere che ci oltrepassano. Non senza l’emancipazione di ogni legame, ma nella forza degli impegni che ci raccolgono e che raggruppano tutto quanto fa parte delle nostre vite.
La casa è più dei materiali che la compongono, scrive Saint-Exupéry nella Lettera al generale X. Un popolo è più di una giustapposizione di individui che “vivono insieme”. Questo l’abbiamo appreso, noi come altri, da ciò che la nostra civiltà ha coltivato di singolare; per fare un Arnaud Beltrame ci sono voluti secoli di civiltà, di letteratura, di filosofia, di scienza e di fede… Disertando questa eredità, attraversiamo insieme – nel bel mezzo della nostra prosperità materiale – un vero “deserto dell’uomo”. E la sete che l’ha fatto nascere, specie tra i più giovani, ai quali non abbiamo saputo trasmettere, lascia proliferare la polla avvelenata dell’islamismo – questo succedaneo morbido della trascendenza, il cui delirio va fino a fare del martire un assassino. Davanti al proprio boia, un gendarme disarmato ci salva tutti, ricordandoci chi siamo noi: siamo di quelli che sono pronti a morire, non per uccidere ma per salvare.
Certo, ci resta ancora parecchia strada da fare prima che siano vinti tutti gli avatar di quest’odio che vorrebbe distruggerci. Resta molto anche prima che siamo tutti capaci di denunciare il nostro avversario, l’islamismo, nella sua violenza terrorista come nei suoi tentativi politici. Bisognerà che diventiamo tanto più esigenti, vigili, lucidi, della somma dei pubblici lassismi che hanno permesso a un delinquente condannato di restare sul suolo francese fino a quest’ultimo misfatto. Ma, mio Colonnello, lei e quanti la spalleggiano e raccolgono il suo testimone ci avete già mostrato come attendere alla vittoria che ora noi vi dobbiamo, perché attraverso il vostro impegno noi riconosciamo semplicemente quello che noi dobbiamo ridiventare. E di ciò, semplicemente, noi vi saremo infinitamente riconoscenti. Per sempre.
Bellamy lo scrive con grande lucidità: «Noi abbiamo l’inesprimibile sentimento che quest’uomo ci abbia salvati. Tutti». E sono sicuro che anche voi, leggendo, abbiate come gradualmente condiviso quella lucida visione che era, un tempo, la nostra civiltà: essa è tuttora viva – è viva al punto che dà la vita! – e fatti come il sacrificio di Beltrame ce lo testimoniano chiaramente.
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Le parole di Marielle sui funerali dello sposo in settimana santa anticipano misticamente il risus paschalis della Maddalena – anche lei «miscens gaudia fletibus» –: di quali testimonianze ulteriori si ha bisogno per riconoscere in questa coppia “il sigillo dell’Agnello”? E qualcuno sensatamente mi obietterà: «Ma è davvero così essenziale riconoscere e/o apporre un “brand” sul sacrificio di quest’uomo? Non basta ricordarlo semplicemente come un eroe?».
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Eh, no, non basta. E non perché essere eroi sia “troppo poco” (figuriamoci!). Non basta perché l’eroismo non si spiega da sé: anche Achille, forse il più secolare fra tutti gli eroi omerici, muove tutta la propria guerra per un fine ben chiaro, che è la gloria imperitura. E a differenza di altri eroi (tra cui lo stesso Beltrame) il Pelide non esprime tanto l’ethos di un popolo, pur essendo re e semidio, quanto piuttosto il proprio rabbioso struggimento – l’ira funesta. Ragion per cui l’Iliade parla di lui in larghissima parte, eppure – a differenza dell’Odissea – si chiama appunto Iliade e non “Achilliade”. Nessuno, in realtà, si è sentito salvato da Achille. Mentre un ethos si è ritrovato nelle luci e nelle ombre di Ulisse, che combatte con valore e astuzia pur essendo partito per la guerra a malincuore, che va a letto con donne e dee pur essendo roso dalla nostalgia della sua ormai sfiorita Penelope, che facilmente potrebbe regnare sui Feaci o su altri grandi popoli ma deve tornare «all’isola petrosa», da cui il figlio Telemaco è salpato per ordine di Atena per cercarlo – e per trovarsi. Ancora di più queste dinamiche sono esaltate nell’Eneide, esplicitamente costruita come mito fondativo della Roma imperiale, e dunque pensata e scritta perché un popolo e una nazione vi si potesse ritrovare così come Telemaco si trovò cercando il padre disperso.
Su questi pochi accordi Massimo Recalcati ha scritto il fortunato saggio Il complesso di Telemaco, ma sugli stessi il giovane Bellamy ha spopolato, in Francia, con un libretto chiamato “I diseredati”: ecco, vicende come quella di Beltrame hanno il potere di mostrare a un intero popolo la sua eredità. Ecco perché «non basta ricordarlo semplicemente come un eroe»: perché «per fare un Arnaud Beltrame ci sono voluti secoli di civiltà, di letteratura, di filosofia, di scienza e di fede». È troppo perché lo si lasci passare con sufficienza: difatti i massimi vertici della società francese si accapigliano per bearsi di qualche barlume di tanta luce. La cerimonia pubblica di domani – L’Eliseo ha da poco diramato i dettagli – partirà dal Pantheon, attraverserà Rue Soufflot e Ponte Alexandre III, impiegando circa novanta minuti per arrivare agli Invalides, dove Macron conferirà all’ufficiale di gendarmeria l’onorificenza di Comandante della Legione d’Onore. Questi fasti non sono “semplicemente” attribuibili a un eroe, sono veri sacra sollemnia – un’apoteosi con tutti i crismi. E la ragione è precisamente quella scandita da Bellamy: nei fatti di venerdì scorso è rifulsa una luce imprevedibile, immensamente più grande non solo del male che il terrorista contava di fare (e che ha fatto), ma anche di tutto il bene che si poteva pensare di porre in atto per arginarlo.
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Per questo motivo anche la rivendicazione dei massoni – comprensibile quanto le altre – richiede di essere soppesata e valutata in sé: la questione centrale essendo “da dove è venuta a Beltrame la forza di un gesto tanto divino” («nessuno ha un amore più grande di questo!», disse il Figlio di Dio), il senso comune dei francesi e e non solo è disposto a indagare ogni pista per la quale «un tale potere sia stato dato agli uomini» (cf. Mt 9, 8). Il segreto di tanta sublimità viene dalla massoneria? Certo, è chiaro che questo porrebbe un serio problema “canonico” sul caso: un uomo in odore di santità – che su La Croce di oggi Emilia Flocchini affiancava a Massimiliano Maria Kolbe e a Salvo d’Acquisto – non può certamente ambire agli onori degli altari essendo vissuto da scomunicato. Michele Baio ebbe a coniare l’icastica formula passata per agostiniana: «Virtutes paganorum splendida vitia» [«Le virtù dei pagani sono splendidi vizi»], e sebbene la sensibilità religiosa rinnovata nel Concilio Vaticano II sia ben disposta a rintracciare anche nelle manifestazioni puramente naturali dell’umano «i semi del Verbo» (Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, n. 28; cf. anche Giustino, 2 Apologia 8, 1-2; 10, 1-3; 13, 3-6), tuttavia sulla massoneria e sui suoi adepti pende una secolare scomunica, motivata proprio dall’ambizione dei liberi muratori di costruire a tavolino una religione al contempo vera e priva di quei motivi di conflitto che caratterizza la Rivelazione dell’unico Dio. Al di là delle buone intenzioni (il cui destino è ben noto alla sapienza popolare), questo implica un ripudio del Redentore.
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Dunque il problema mi pare pertinente, e forse anche centrale. Ma quale risposta dare? Mi pare che le dichiarazioni di Marielle e di mons. Rey – che per ammissione del prelato non si conoscono – si rischiarino e si sostengano a vicenda: per Beltrame la gendarmeria era missione e servizio, ed era tutta permeata di fede cristiana. Senza Cristo è quasi impensabile un gesto estremo come dare la propria vita: «A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto» (Rom 5, 7); mentre le testimonianze che di Beltrame dànno quanti ebbero a conoscerlo parlano parlano chiaro – Arnaud cercò Cristo.
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La “prova del nove”, del resto, è presto fatta: in nessun insegnamento massonico s’insegna o si apprendono quelle dottrine estreme che risplendono in questa vicenda, ovvero il dono della vita e l’amore al nemico. Ora sarebbe forse dirimente (per noi, non per lui) avere un calendario delle grandi tappe della vita di Beltrame: sappiamo infatti che la sua conversione al cristianesimo avvenne nel 2008, ossia dieci anni fa. Dai grembiulini non ci si può aspettare che siano trasparenti quanto i monaci, ma chiaramente se risultasse che l’iscrizione alla loggia del Grande Oriente di Francia avvenne in un tempo sensibilmente anteriore alla conversione al cristianesimo tutto acquisterebbe nuova luce. Anche la stessa sincerità della fede di Beltrame ne uscirebbe intatta da ogni ombra: una tale concatenazione di eventi mostrerebbe soltanto quanto fosse lungo il corso dell’alta aspirazione del giovane Arnaud, e l’affermazione di mons. Rey – “Beltrame cercò Cristo” – dovrebbe allora essere corretta in “Beltrame trovò Cristo”. Che fu la risposta ultima, universale e concreta, alle sue ataviche e affannose domande.
I passi del mio vagare – sta scritto – tu li hai contati;
le mie lacrime nell’otre tuo raccogli:
non sono forse scritte nel tuo libro?
Sal 56, 9
Appare oltremodo verosimile che Beltrame abbia lungamente vagato, essendo nato in una famiglia “poco praticante”, alla ricerca di una risposta di senso alle proprie inquietudini: ci sono numerosissimi convertiti al cristianesimo che, prima di approdare al cuore dell’Uomo-Dio, fanno un passaggio nel luminoso atrio dei Frammassoni. Sarebbe anacronistico, ad esempio, rimproverare a Wolfgang Amadeus Mozart la sua affiliazione massonica (le bolle di Clemente XII e Benedetto XIV scomunicavano i massoni per l’opacità dell’organizzazione, giustamente ritenuta sospetta, non per ragioni dottrinali, ed erano le uniche due anteriori al genio di Salisburgo). Analogamente, sarebbe “anacronistico” sospettare di essere scomunicato un uomo che, di fatto, non era cristiano.
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Hanno torto i massoni, nel considerare per sempre massone uno che è stato massone anche solo per un giorno: attribuiscono un potere para-sacramentale a riti pomposi ma puramente umani. E tuttavia ha ragione Bellamy a ricordare con Aristotele come il coraggio non si improvvisi sul campo di battaglia: le virtù sono habitus (ἕξις [éxis] in greco – entrambe le lingue classiche le fanno derivare dal verbo “avere”), ovvero sono profonde attitudini che si maturano lentamente e vengono assimilate da una persona «come una seconda natura». Quest’espressione Agostino la coniava per descrivere la mortalità dell’uomo, che non apparteneva originariamente alla creazione ma che per il peccato (attenzione, i vizî sono habitus) è subentrata ed ha aderito strettamente alla natura: con processo analogo – benché inverso – si producono e si consolidano anche gli abiti virtuosi, quali il coraggio eroico e divino di dare la vita per una persona amata, ancorché sconosciuta.
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Anche recentemente abbiamo parlato delle strutture della vita morale: ebbene accadono talvolta, nelle vite delle persone, eventi che esigono la produzione di una sintesi delle proprie convinzioni – sintesi che spesso si traduce in gesti, più che in parole. Quando una simile prova arriva (può essere una gravidanza non programmata, la malattia di un figlio ancora nel grembo o del coniuge o altro ancora…) tutte le convinzioni superficiali e tutti i velleitarismi che possono essere presenti in ciascuno saltano come tappi di spumante: resta allora solo quello che c’è veramente, se qualcosa di solido davvero c’è.
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La vicenda di Arnaud Beltrame ha offerto al mondo uno spettacolo che questo raramente vede (in realtà accade ogni giorno, ma stavolta non è stato un prete ad essere sgozzato…), e mentre i pagani restano attoniti a guardare «qual trofeo di gloria» può essere la croce abbracciata da un uomo, i cristiani, che «solo della croce si gloriano» (Gal 6, 14), riconoscono nel gendarme francese come Dio abbia
privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo.
Col 2, 15
I Principati e le Potestà di cui Paolo parla sono le forze che esprimono e inculcano nelle menti degli uomini e nelle loro culture i valori fondamentali per cui si vive o si muore: l’autodeterminazione, il successo, il denaro, il potere, il piacere. Tutto è stato sublimemente superato, nel sacrificio di Arnaud Beltrame.
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In tal senso, è anche molto bello che la Chiesa resti in disparte, a godersi con discrezione le meraviglie operate da Dio in questo suo figlio: si accapiglino pure gli altri, che «ricevono gloria gli uni dagli altri e non cercano la gloria che viene dall’unico Dio» (cf. Gv 5, 44). Essa invece se ne sta in contemplazione ancora per qualche giorno, pronta a gioire nella propria maternità, tutta «splendente della gloria del suo Signore» (dall’Exultet).