«Credere per me è stato un lungo cammino di liberazione dal moralismo. Oggi percepisco d’essere accompagnata, come Maria». E proprio alla Madonna la scrittrice dedica il suo ultimo romanzo
di Roberto Carnero
«Maria era spaventata ma non ha ceduto alla paura perché, pur messa alla prova dalle scelte di Gesù, sapeva che quell’amore era troppo vero e immenso per poter finire». Lei, l’ultimo libro di Mariapia Veladiano, è un intenso romanzo che dà voce ai pensieri e alla vita della Madonna. «Volevo raccontare soprattutto l’umanità di Maria, preservandola da ogni tentativo di renderla figura altissima ma distaccata». Una vita con i piedi per terra, insomma, proprio come quella della scrittrice vicentina.
Come gran parte della sua generazione, Mariapia Veladiano viene da una famiglia contadina. Ci tiene a sottolinearlo, perché ciò per lei rappresenta una sorta di imprinting originario. «Il contatto con la terra, nel senso di giocare a fare formine, scavare buche, travasare sabbia per ore e giorni, vedere lavorare l’orto e coltivare le viti, nonché il contatto con gli animali e le piante, mi hanno reso facile amare e rispettare la natura. L’idea della terra che produce frutti non è qualcosa di cerebrale, ma è proprio amore. Quello che ti fa percepire tutta la violenza delle nostre azioni scellerate sul territorio, stare malissimo di fronte alla devastazione operata per costruire superstrade inutili, vedere la bruttezza della nostra architettura cementizia sulle campagne».
Oggi che è preside in un liceo della sua città, Mariapia Veladiano riconosce che nella sua vita ha studiato tanto. Anche questo faceva parte dell’universo contadino uscito dalla Seconda guerra mondiale. Lo studio era visto come strumento di riscatto sociale: il senso della concretezza del lavorare la terra e la disciplina, spostate sulla scuola. «Il primo dovere di noi bambini era essere bravi a scuola», ricorda. «Non riuscire a scuola sarebbe stata una delusione grande per i genitori, ma pazienza, saremmo andati a lavorare senza tante storie. Questo mondo adesso non esiste più. Il titolo di studio è percepito come un quasi diritto dalle famiglie. Se i figli non riescono, si cercano colpe nella scuola. I figli sono carichi di aspettative che non sentono più come proprie. Ma se l’aspettativa è del genitore, non c’è gusto nella conquista del sapere, non ci si mette in gioco davvero».
Suo padre voleva che studiasse ragioneria, e all’inizio accettò di accontentarlo, ma poi fu lei a spuntarla con l’iscrizione al liceo classico: «Agli occhi dei miei genitori, l’istituto tecnico era una scuola più concreta. Ma quando alla fine del primo anno un professore mi ha convinta a cambiare scuola, mi hanno appoggiata».
GLI STUDI IN SEMINARIO
Poi gli studi teologici con il corso ordinario per il baccellierato (l’equivalente di una laurea di primo livello, ndr) al seminario di Vicenza.