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Come invecchiare bene? I consigli di un grande teologo

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 21/12/16

di Romano Guardini

Può capitare che egli (l’uomo) distolga gli occhi dalla prossima fine, facendo come se non si avvicinasse, e che si aggrappi allo stadio di vita che si va esaurendo, e si comporti come se fosse ancora giovane. Tutto ciò può avere conseguenze tanto funeste quanto pietose. Uno dei più inquietanti fenomeni del nostro tempo è l’opinione che il valore della vita coincida sic et simpliciter con la giovinezza.

Tuttavia, potrà succedere che egli capitoli dinanzi alla vecchiaia incombente, rinunciando al coronamento della sua vita e aggrappandosi a ciò che gli resta. Da questo atteggiamento nascono i gravi fenomeni del materialismo senile, che attribuisce importanza esclusivamente alle cose tangibili, come il mangiare e il bere, il conto in banca, la poltrona comoda. Si sviluppa così la testardaggine senile, la smania di mettersi in luce, la tendenza a comportarsi da tiranno tormentando gli altri: e questo per convincersi di essere ancora qualcuno — tali caratteristiche sono rappresentate nelle figure mitiche del mago e della strega.

Per superare positivamente tale crisi, si dovrà accettare il fatto che si diventa vecchi. Si tratta di accettare la fine, senza soccombervi e senza svalorizzarla in modo superficiale o cinico. È allora che si realizza un complesso di comportamenti e di valori assai nobili e importanti per la totalità della vita: discernimento, coraggio, pacatezza, rispetto di sé, valorizzazione della vita vissuta, dell’opera compiuta e del significato conferito all’esistenza.

Di particolare importanza è il superamento dell’invidia verso i giovani, del risentimento nei confronti delle novità che si verificano nella storia, della gioia maligna nei confronti dei difetti e degli insuccessi del presente. Se questo si verifica, si forma la figura dell’uomo vecchio, o, meglio, dell’uomo saggio, per usare una parola con un significato di valore. Possiamo caratterizzarlo come colui che è conscio della fine e l’accetta.

Con questo non è detto che se ne rallegri, anche se persino questo caso può verificarsi, seppure raramente. Egli è invece sempre più schiettamente preparato a quello che dovrà succedere. La fine della vita è essa stessa ancora vita. Vi si attuano valori che si possono attuare soltanto in questo frangente. Con l’accettazione della fine, il comportamento acquista pacatezza e superiorità, intesa in senso esistenziale. Quando al cardinale Carlo Borromeo fu chiesto che cosa avrebbe fatto se avesse saputo di dover morire un’ora dopo, egli rispose: «Cercherei di fare particolarmente bene quanto sto facendo ora».

La superiorità che qui si esprime consiste nel superamento dell’angoscia, del desiderio di gustare il piacere, della fretta di vivere quanto resta da vivere, dell’ansia con cui si sfrutta all’estremo ogni attimo del tempo che si va accorciando (si pensi all’atteggiamento di Socrate al termine del Fedone). Ma il senso della caducità produce anche qualcosa di positivo; si tratta della coscienza, sempre più lucida, di ciò che non passa, di ciò che è eterno. In queste pagine non possiamo esaminare più dettagliatamente la natura di tale consapevolezza.

A seconda della concezione che ognuno ha dell’esistenza, essa assumerà un carattere diverso. L’interpretazione meno valida dell’eterno è quella di chi dice: io continuerò a vivere nei miei figli o nel mio popolo. Essa travisa il senso di ciò che si intende per eterno. Più ancora: pone l’eterno proprio al servizio di ciò che è contingente.

Chi parla seriamente di eterno, non intende con questo parlare di ciò che ha continuità, in senso biologico, culturale o cosmico. Ciò che ha continuità rappresenta la falsa eternità, anzi, l’incremento della caducità fino all’intollerabile. L’eternità non è un Più quantitativo, per quanto sia incommensurabile, bensì è qualcosa di qualitativamente altro, libero, incondizionato.

L’eterno non è in rapporto con la vita biologica, bensì con la persona. Esso non conserva quest’ultima perpetuandola, bensì la realizza in senso assoluto. La consapevolezza di questa perennità cresce nella misura in cui la caducità è sinceramente accettata. Chi cerca di schivarla, nasconderla o negarla, non ne prenderà mai coscienza. Analoghe osservazioni valgono per ciò che abbiamo definito la labilità che sempre più caratterizza l’esistenza, via via che la fine si avvicina. Da questo si vede chiaramente che la vita ha un significato che trascende la vita stessa.

Il contingente lascia trasparire l’assoluto. Queste esperienze permettono di distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante, ciò che è autentico da ciò che non lo è; consentono di comprendere l’unità della vita e il significato che in essa hanno i singoli momenti.

Questi sono tutti modi di esprimere il significato di «saggezza». La saggezza è qualcosa di diverso dall’intelligenza acuta o dalla sagacia. È ciò che si viene a creare quando l’assoluto e l’eterno penetrano nella coscienza contingente e finita, e da questa gettano luce sulla vita.

È qui che affonda le radici l’attività autentica della vecchiaia. Ci sono due tipi di attività quella della dynamis immediata, che è la forza con cui si controlla e si organizza, e quella del senso delle cose, della verità, del bene. Nell’uomo adulto, esse stanno in un certo equilibrio. Egli deve produrre, lottare, imporre — beninteso, produrre ciò che è autentico, lottare per ciò che è giusto, imporre il bene. Diventando vecchio, la dynamis s’affievolisce. Tuttavia, nella misura in cui l’uomo consegue le sue vittorie interiori, la sua persona lascia, per così dire, trasparire il senso delle cose.

Egli non diventa attivo, bensì irradia. Non affronta con aggressività la realtà, non la tiene sotto stretto controllo, non la domina, bensì rende manifesto il senso delle cose e, con il suo atteggiamento disinteressato, gli dà un’efficacia particolare.

Qui va precisato qualcosa a cui s’è già accennato, e che è importante per l’uomo di oggi: egli ha dimenticato del tutto in che cosa consista il significato stesso della vecchiaia. Al suo posto ha collocato l’immagine vaga di una vita che si prolunga, nella quale la forma di vita del giovane funge da norma. Della vecchiaia si parla solo riferendosi alle limitazioni che comporta, per esempio, dicendo che in quell’età si è meno efficienti, meno elastici.

In fondo, il vecchio non sarebbe altro che un giovane sminuito; e tutto questo si collega con la fiducia nell’abilità dei medici a prolungare la vita, e con la fiducia in metodi terapeutici la cui efficacia sarebbe «miracolosa», senza dimenticare le mistificazioni della moda e della cosmesi. Quel che ne risulta è apparenza e inganno nei confronti della vita.

La conseguenza è che in tutta la raffigurazione odierna della vita sono assenti i valori della vecchiaia, cioè la saggezza nelle sue diverse forme, i comportamenti che risultano dalla progressiva trasparenza della vita, dalla capacità di discernimento e di giudizio.

Tuttavia, quanto meno si considera e si riconosce la vecchiaia, tanto più misconosciuta sarà anche l’infanzia autentica: la maggior parte dei bambini sono visti allora come adulti in miniatura. I veri bambini sono esseri umani che esistono in quell’unità della vita, della quale abbiamo parlato in precedenza. Per esempio, essi sono capaci di ascoltare fiabe, sono cioè in grado di pensare miticamente. Tuttavia, oggi, se mai si raccontano fiabe, lo si fa tendendo a razionalizzarle o a estetizzarle. I bambini sono capaci di giocare, di creare personaggi, scene di vita, cerimonie. Dappertutto, invece, vediamo solo giocattoli che riproducono le realtà della tecnica, e che in verità sono pensati per un adulto. Se invece si verifica l’opportunità che prenda risalto qualche aspetto della natura del bambino, se, per esempio, si coglie la ricchezza di significati contenuti nei disegni dei bambini, allora si elaborano teorie al riguardo, si organizzano mostre, si conferiscono premi, e tutto si guasta.

Il misconoscimento della vecchiaia e dell’infanzia vanno di pari passo: il fatto che l’uomo diventa vecchio viene rimosso, e nasce l’immagine idealizzata dell’uomo e della donna che hanno sempre vent’anni, una raffigurazione tanto stolta quanto vile. Dall’altra parte, il bambino viene meno; al suo posto compare il piccolo adulto, una creatura nella quale si è inaridita la fonte delle energie interiori. Questi due fenomeni rappresentano un impoverimento della vita.

[Tratto daLe età della vita (Milano, Vita e Pensiero, 2011, pagine 92, euro 10)]

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