“No, mi dicevo. Quello che stavo sperimentando non era un abuso, ed era completamente colpa mia”
L’ultima volta in cui ho visto il mio abusatore, il mio corpo si è preparato a un attacco.
Eravamo stati separati per tre mesi, ma è stato solo quella settimana che l’ho lasciato davvero. Mi sono rifiutata di cedere alle sue richieste e di assumermi la responsabilità delle sue minacce di suicidio e autolesionismo. Ero calma, razionale e distaccata, nonostante i suoi tentativi di provocarmi. In un rapporto in cui ero stata costantemente fatta sentire pazza, sono rimasta sorpresa dalla mia posizione decisa. Avevo comunque paura di come avrebbe potuto reagire.
Nei giorni precedenti a quell’incontro faccia a faccia, avevo constatato in lui una nuova impudenza. Quando ho smesso di rispondere alle sue telefonate ha iniziato a chiamare ripetutamente mia madre a notte fonda, inventando una storia sul fatto che la Polizia sospettava che mi fossi introdotta in casa sua e mi aveva mosso delle accuse, che però lui poteva cancellare se fossi stata ragionevole e lo avessi incontrato. Quando questo non ha funzionato, ha minacciato di venire a casa mia e di darmi una lezione – dopo tutto, mi ha ricordato, era stata anche casa sua, e aveva la chiave.
Era sempre stato profondamente “privato” nel suo abuso, camuffandolo di modo che non me ne accorgessi neanche io. Ora che le sue tattiche abituali di coercizione stavano fallendo sembrava disperato. Cos’altro avrebbe fatto?
Quando l’ho visto nel vialetto di casa il pomeriggio successivo ho provato una scossa di paura, ma anche qualcos’altro: impudenza, rassegnazione, bisogno schiacciante di verifica e desiderio che l’abuso terminasse – a qualsiasi costo. Ho scelto di affrontarlo piuttosto che scappare via.
Ho pensato che se mi avesse fatto del male almeno la verità sarebbe venuta a galla. La gente sarebbe stata costretta a prenderne atto e a testimoniare.
Io stessa sarei stata costretta a prenderne atto e a testimoniare.
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