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Lettera di un musulmano: l’ISIS è per l’islam quello che il KKK è per il cristianesimo

Los Dioses están locos - pubblicato il 20/11/15

La mia famiglia vive a Parigi vicino al Bataclan. Tra quelle vittime avrebbero potuto esserci i miei parenti

di Dante Ibrahim Matta

Quello che è accaduto a Parigi venerdì scorso mi ha colpito personalmente, perché è avvenuto a pochi metri dalla casa dove vive la mia famiglia e vicino a tutti i luoghi in cui ho trascorso la mia infanzia e la mia adolescenza, e dove vivono ancora i miei parenti e i miei amici. Durante l’adolescenza ho assistito a vari concerti al Bataclan (dov’è avvenuta la tragedia più grande), e ho amici che lavoravano lì. Tutti i luoghi nei quali i terroristi hanno sparato alla cieca sono abitati da migliaia di miei ricordi.

Venerdì, quando mia moglie mi ha detto che c’era stato un attacco a Parigi in un bar, ho iniziato a seguire angosciato quello che avrebbe potuto essere uno scontro violento tra due bande rivali: quelli che erano tre morti in un bar sono diventati in poche ore un massacro che è costato la vita a più di 130 persone e ne ha ferite oltre 300.

Ho seguito in diretta i vari attacchi nella capitale, nei ristoranti e nei bar, allo stadio nazionale, l’assalto al Bataclan e poi l’attacco suicida da parte dei terroristi, che in pochi minuti ha triplicato il numero di vittime di quella notte di terrore. Ho poi visto il video della gente che fuggiva di corsa dalla porta sul retro, i marciapiedi pieni di sangue, un ragazzo che trascinava il corpo inanimato di un suo amico, i corpi senza vita in strada e la gente che si appendeva alle finestre ma senza poter saltare giù, perché aveva tre piani sotto di sé. Tutto questo in una stradina in cui ho trascorso molti pomeriggi della mia adolescenza con gli amici. Quella stradina era diventata un teatro di guerra.

La paura e l’intensità dell’ansia di avere notizie dei propri cari si possono descrivere difficilmente, ma diciamo che a qualche giorno dalla tragedia gli effetti di questi sentimenti e un profondo malessere continuano a farsi sentire. Grazie a Dio stanno tutti bene, ma tra le vittime avrebbero potuto esserci i miei genitori, le mie sorelle e i miei fratelli, i miei amici o i miei vicini e conoscenti. Mia sorella doveva andare quel giorno a fa visita a un’amica che vive in rue Charonne, dove sono morte 19 persone.

Ciò non vuol dire che i morti e i feriti valgano più a Parigi che in Libano, in Siria, in Turchia, in Iraq o in Palestina, come molti inizieranno a dire, a volte senza grande sensibilità e più contro la Francia che a favore della Siria. Ma non valgono meno. Alcuni dicono che è il “modo giusto per ripagare” i crimini della Francia in Medio Oriente, ma le persone che sono state attaccate e uccise non sono quelle che hanno il potere decisionale sulla politica estera dell’Occidente. La maggior parte di loro non sarebbe neanche riuscita a indicare la Siria su una mappa.

Dopo una tragedia che si vive a livello personale, risulta difficile vederla recuperata politicamente da tutte le parti. Il carnefice Bashar al-Assad dev’essere contento, e forse vi ha trovato la sua via d’uscita politica al genocidio che sta compiendo contro il suo popolo dal 2011. L’estrema destra francese ed europea spiega che questo è il risultato dell’“islamizzazione” della Francia, e che è quello che succede accettando moschee sul nostro suolo, dimenticando che questa dottrina non si diffonde dalle moschee ma dalle reti sociali, nelle quali regna il caos informativo e teologico e la parola di un teologo che ha dedicato la propria vita allo studio o di un giornalista che ha dato la sua per informare hanno la stessa voce di un adolescente di 15 anni che si è convertito all’islam l’altroieri, o di un cospiratore che non ha mai aperto un libro di storia in vita sua.


Si dimentica anche che quelli che vanno in Siria o in Iraq per unirsi alle file del cosiddetto “Stato Islamico” sono il puro prodotto della società francese, che sono andati alla scuola “della Repubblica” come tutti gli altri e che bisognerà prendersi un po’ di tempo per interessarsi alle cause della radicalizzazione che spinge questi giovani a lasciare tutto il “lusso della vita del primo mondo” per andare a morire nel caos iracheno-siriano.

Da qui, da lontano, si percepisce solo che i musulmani attaccano i francesi perché disprezzano il loro modo di vivere, quando in realtà in questi attentati sono morti sia musulmani che atei, ebrei o agnostici o qualunque altra cosa: tutti i membri dell’Associazione Umanitaria Musulmana sono stati uccisi mentre stavano distribuendo cibo ai poveri davanti a uno dei ristoranti. Un uomo musulmano ha messo in pericolo la propria vita per impedire che uno dei terroristi allo stadio si avvicinasse alla folla. Una donna musulmana, Asta, che faceva parte di un’altra organizzazione umanitaria musulmana ed era nota nella comunità per la sua pietà, è stata assassinata quella sera. I terroristi non fanno discriminazioni.

E allora, qual è il motivo degli attacchi? In realtà la religione non c’entra: “l’esercito francese uccide i civili nei nostri Paesi, e allora uccidiamo i suoi” – si agisce come qualsiasi esercito o gruppo guerrigliero disumanizzato, indipendentemente dal fatto che le leggi islamiche sul combattimento proibiscano tassativamente l’assassinio di un non combattente e ripudino totalmente questa logica che in arabo si chiama yahilia: “dell’epoca dell’ignoranza”, prima dell’islam, quando in Arabia la giustizia era tribale – tu uccidi uno dei miei, io uccido uno dei tuoi. Il Corano dice che nessuna anima può essere gravata da quello che ha fatto un’altra, e dice anche di non uccidere la vita umana, perché Dio l’ha dichiarata sacra, e ancora che uccidere un innocente è come uccidere l’intera umanità, e salvare una persona è come salvare l’intera umanità. Nell’islam la guerra è strettamente difensiva, ma quando hanno chiesto a Bin Laden perché uccideva civili se la legge islamica lo proibisce ha risposto: “I tempi sono cambiati”. È la risposta di un ideologo, di un politico, di una persona che usa la religione per i propri scopi.

Già sapevo, però, come sarebbero stati letti questi eventi da molti a livello nazionale e internazionale: il problema sono i musulmani e l’islam, quando in realtà i terroristi rappresentano la nostra religione come il Ku Klux Klan rappresenta il cristianesimo. Non importa che per l’ISIS siamo obiettivi prioritari, peggiori dei “crociati”, perché secondo l’ideologia di queste persone è del tutto proibito vivere in terra di “incredulità”, così com’è un atto di tradimento nei confronti della nostra religione non riconoscere il loro califfato come legittimo. Siamo noi i traditori. Non è un caso che il 90% delle vittime di questi gruppi nel mondo sia composto da musulmani.

Con questo tipo di “teologia”, tutta la comunità islamica, un miliardo e 600mila persone nel mondo, dal Senegal all’Indonesia, è composta da apostati che meritano la morte, tranne i vari gruppi terroristici che hanno riconosciuto l’ISIS, come i talebani del Pakistan, Boko Haram in Nigeria, l’AQMI ecc. – circa 50.000 persone.

Senza tener conto, ovviamente, della popolazione civile della parte della Siria e dell’Iraq controllata dall’ISIS, perché se non accetta di riconoscere il califfato viene uccisa. La totalità dei teologi islamici del mondo musulmano, dei 54 Stati musulmani, sunniti e sciiti, e tutte le istituzioni di teologia e delle varie leghe musulmane del mondo hanno rifiutato l’ISIS e hanno dichiarato non valido il suo potere, ma chi conosce in Occidente e in America Latina il nome di un solo teologo musulmano? Di una sola istituzione islamica? E allora si vedono solo – e si considerano come rappresentanti dell’islam – i gruppi che lanciano bombe e sparano ai civili. Come dice il proverbio africano, “l’albero che cade fa più rumore della foresta che cresce”.

Come affermano i saggi islamici come Muhammad al Yaqoubi, che ha scritto la fatwa rendendo obbligatoria per ogni musulmano la lotta contro l’ISIS in base alle sue capacità, non si può risolvere il tema del radicalismo solo con misure a breve termine, invadendo, bombardando o arrestando, ma serve una politica a lungo termine: la nascita del fanatismo islamico è sempre il risultato del crollo delle istituzioni tradizionali musulmane. Quando si rispetta più il turbante e una barba lunga che anni di studio, si rende possibile questa situazione. Quando ci si lascia guidare più dalle emozioni che dalla ragione, è questo che succede. Ma cosa favorisce lo sviluppo di teologie razionali, moderate e aperte sul mondo? La vita in un Paese in guerra, tra le bombe delle coalizioni internazionali e delle dittature? Non credo.

Prego allora per l’anima di coloro che sono morti a Parigi, indipendentemente dal fatto che siano atei, cristiani o musulmani: sono veri martiri. Prego anche per i siriani vittime del cinismo senza fine degli Stati e delle ideologie che li circondano, che ora non hanno alleati se non Dio, perché come ci ha insegnato il suo messaggero, “attenzione alla preghiera dell’oppresso, perché non c’è alcun velo tra quella preghiera e Dio”.

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Articolo pubblicato da Dante Ibrahim Matta, teologo musulmano francese residente in Uruguay, sul blog Dioses Locos.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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