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“Noi teologi siamo come lillipuziani che si affaticano attorno al gigante addormentato”

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don Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 22/10/15

Circa un mese fa ho avuto una bella conversazione con un giovane studente al primo anno di teologia, un po’ deluso dall’ambiente universitario e dagli studi che stava intraprendendo. Ne è nata una lunga lettera che oggi voglio condividere con voi, chissà che non possa tornare di qualche utilità anche ad altri.

Carissimo …,

ti mando in forma di velocissimi appunti alcune idee che mi frullano per la testa dopo la nostra conversazione di ieri. Conosci la storia di Robinson Crusoe. Ecco, noi teologi siamo come lillipuziani che si affaticano attorno al gigante addormentato cercando di capire chi o cosa sia. E come i lillipuziani del racconto di Stevenson facciamo parecchi sbagli che possono rendere impossibile lo studio e la comprensione della teologia o quanto meno renderla mortalmente noiosa.

Particolarismo
È essenziale comprendere che le diverse discipline teologiche sono radicalmente interconnesse. Posso sapere tutto sul bottone della giacca di Gulliver, ma se non riesco a vedere anche l’asola in cui va infilato non saprò mai che cosa è in realtà. La scienza moderna tende ad essere specialistica, ma lo studio della teologia è enciclopedico per sua natura. È evidente che la materia teologica è così complessa che si può conoscere fino in fondo uno o al massimo due dei tradizionali trattati in cui la è suddivisa, ma un teologo deve avere una buona conoscenza di base di tutti i trattati, altrimenti non sarà mai capace di avere la visione di insieme.

Oggettivismo
Il gigante è vivo, magari addormentato, ma vivo. Quindi non lo si può studiare come si studia un oggetto inanimato: Dio non è mai oggetto, ma sempre soggetto. Normalmente per dire che uno conosce una materia si dice che la possiede o la domina, ma in questo caso è Dio che possiede e domina noi! Come andare in cappella a pregare il Dio che mezz’ora prima abbiamo sezionato sul tavolo da laboratorio? Bisogna sempre ricordare la grande lezione dell’inventore della teologia apofatica, s. Gregorio Nazianzeno: “i concetti creano idoli, solo lo stupore comprende qualcosa di Dio” o detto con altre parole: “se lo capisci non è Dio”. Non per nulla capire viene da capere (prendere) e anche in inglese si usa to get per dire capire. Perché possiamo uscire da questa palude è necessario che Dio, come Gulliver, si svegli e strappi via tutte le corde con cui lo abbiamo legato. Allora comprenderemo che è vivo e non si lascia mai racchiudere in dogmi e definizioni, comprenderemo che è lui che porta noi e non noi a portare lui.

Ma allora a che serve la teologia? Perché dobbiamo studiarla?
Abbiamo bisogno della teologia perché siamo esseri pensanti e non possiamo rinunciare a capire qualcosa di ciò che amiamo. Naturalmente non ne abbiamo bisogno tutti allo stesso modo, ci sono persone che possono accontentarsi di avere poche informazioni generali su Dio e dedurre tutto il resto dall’esperienza. Un po’ li invidio, perché per loro la vita è decisamente più semplice. Potremmo dire che queste persone sono i mistici. Il limite di questa via di conoscenza è che è pressoché incomunicabile. Se non sono in grado di articolare in un discorso la mia esperienza di Dio non la posso comunicare e rimane privatissima, e se non ho riflettuto sulla mia esperienza di Dio e non l’ho in qualche modo analizzata e compresa anche razionalmente non sarò mai in grado di articolarla.

Quello che però bisogna sempre ricordare è che, come dice S. Tommaso, la fede non termina nell’enunciato, ma nella res, che è sempre superiore all’enunciato. In altre parole qualsiasi discorso su Dio si basa sull’esperienza, su un fatto. Purtroppo la teologia moderna spesso si è lasciata irretire dal razionalismo kantiano (la fede va tenuta entro i limiti della sola ragione) e dall’idealismo hegeliano (che è come un nominalismo, dove i concetti contano assai più della res), alla fine dei conti la crisi della teologia comincia con Cartesio e il suo genio malefico che lo porta a dubitare dell’esperienza. Ma Dio si è fatto carne, questo è il primo assunto teologico, quindi la carne è via di conoscenza e la realtà è il luogo della sua presenza e la nostra esperienza di Lui, di conseguenza, è affidabile.

È interessante notare ad esempio che tutta la grande teologia trinitaria del terzo, quarto e quinto secolo si basa sul cosiddetto argomento soteriologico: “ciò che non è assunto non è salvato”, dove in ultima analisi ciò che precede il ragionamento è l’esperienza: poiché ho esperienza della salvezza deduco che Gesù è Dio, poiché ho esperienza della divinizzazione deduco che lo Spirito Santo è Dio… eccetera. Insomma, la teologia, anche quella più speculativa, è sempre una riflessione su una res, e quindi su un’esperienza.

Nel suo diario Kierkegaard scrive che i dogmi della chiesa sono come principi e principesse addormentati in un castello, in attesa del bacio dell’eroe che li risvegli perché possano risplendere in tutta la loro regalità e bellezza. Abbiamo bisogno di un bacio (che è metafora dello Spirito Santo) per risvegliare i dogmi alla loro vita e alla loro gloria.

Per uscire dalle secche del pensiero teologico quindi vanno fatti due passi:

Tornare alla res
Dobbiamo rimettere la nostra esperienza di Dio al centro della teologia. S. Gregorio di Nazianzo diceva che chi prega è teologo e chi è teologo prega. O ricominciamo a fare teologia in ginocchio oppure affliggeremo gli studenti dei corsi teologici di dotte speculazioni, a volte appassionanti e a volte mortalmente noiose, ma sempre velenose perché ci allontanano dal Dio vero e vivo. Non siamo noi a parlare di Dio, è Lui che parla di sé e noi ripetiamo ciò che Egli ci fa conoscere.

Tornare al tutto
Nei limiti del possibile la conoscenza di Dio deve essere olistica, proprio perché è un discorso su una persona viva e non su un insetto infilzato in un laboratorio entomologico, deve sempre aver di mira il tutto. Tutto è connesso con tutto, come in un organismo vivo. Non si può studiare l’esegesi biblica o il diritto canonico o la storia della Chiesa come se fossero argomenti staccati rispetto alla teologia. I diversi trattati teologici si presuppongono e si illuminano l’un l’altro: separare il “de Deo uno” dal “De Deo trino” è un errore micidiale, studiare il “de Gratia” senza tener conto del “de Creatio” o del “de Ecclesia” è inconcludente. E come è possibile prescindere dalla base biblica qualsiasi discorso su Dio? Diritto canonico e Storia della Chiesa poi sono lo studio dell’incarnazione che si prolunga nel tempo… come studiarli prescindendo dal “de Ecclesia”?

Mi permetto infine di darti alcuni suggerimenti pratici per il tuo metodo di studio:

Nei limiti del possibile cerca di nutrire la tua preghiera di autori non solo devozionali, ma che al contrario abbiano una vera comprensione teologica della propria esperienza mistica: molti padri della Chiesa (Agostino, Ambrogio, i padri cappadoci eccetera) e gran parte della teologia mistica medioevale (in particolare la grande tradizione cistercense: Bernardo, Aelredo, Isacco della Stella e Guglielmo di St. Thierry) va in questa direzione. Tra i moderni mi vengono in mente Newman, Cantalamessa, Ratzinger, Giussani… ma ce ne sono parecchi. È in fondo il consiglio che dava S. Teresa d’Avila alle sue suore su come scegliere il padre spirituale, quando diceva che è molto più importante che sia dotto piuttosto che santo.

Innamorarsi di un autore e approfondirlo al massimo. I grandi teologi sono tutti olistici ed enciclopedici e conoscendone uno a fondo saremo in grado di risalire dal particolare all’universale. Per me è stato lo studio di Ratzinger, ma ce ne sono molti, sia antichi che moderni, che vanno bene. Tra gli antichi: Tommaso, Agostino e Bonaventura, tra i moderni, oltre Ratzinger, von Balthasar e Rahner, ma anche Guardini o De Lubac

Scegliere un trattato che diventi la luce che illumina tutti gli altri. In genere questo accade quando un raggio della gloria di Dio ci colpisce in una maniera speciale. Per me è stata l’esperienza dello Spirito Santo fatta nel Rinnovamento che mi ha portato ad approfondire particolarmente il “de gratia” e a partire da lì ripensare tutta la morale, l’ecclesiologia, e l’antropologia fino a comprendere in modo nuovo la dogmatica. Per Ratzinger invece è stato il “de Ecclesia”, studiato con gli occhi di Agostino, che lo ha portato a ricomprendere tutto il resto. In questa ricomprensione si mette ordine nella conoscenza di Dio, si passa dal pretendere di capire (possedere) Dio, al sapere (inteso come aver sapore) di Dio.

Avere un’approccio umile allo studio. All’inizio dei suoi corsi universitari Kierkegaard premetteva sempre un sermone in cui diceva che accettava la cattedra con grande timore perché prima di lui su quella cattedra avevano seduto grandi maestri, gli unici da cui il Signore ha detto esplicitamente che dobbiamo imparare, cioè gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. Sarà sempre infinitamente di più ciò che noi ignoriamo su Dio di ciò che sappiamo, dobbiamo quindi essere molto umili e ricordare che non siamo noi a conoscerlo, ma Lui che si rivela, perché “nessuno può conoscere il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio lo voglia rivelare”.

Avere una grande stima di quelli che ci hanno preceduto. I santi che in passato hanno indagato su Dio non erano degli idioti che amavano complicarsi la vita con questioni oziose, se certe cose che a noi appaiono astruse ed incomprensibili per loro hanno avuto un’importanza vitale di solito c’è una buona ragione ed è bene cercare di capire le loro motivazioni. Le sfide di fronte alle quali si sono trovati i grandi teologi del passato possono essere diverse dalle nostre, ma se noi siamo in grado di vedere più lontano è perché siamo nani seduti sulle spalle di giganti. Una domanda teologica, per quanto apparentemente astratta, non è una questione di vita o di morte, è molto di più.

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