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Fuggendo dall’orrore della guerra, un cristiano siriano incontra il terrore in mare

TOPSHOTS-GREECE-EUROPE-MIGRANTS

AFP PHOTO / ARIS MESSINIS

TOPSHOTS A migrant sits on the beach, as he just arrived, with other refugees and migrants, on the Greek island of Lesbos, on October 7, 2015, after crossing the Aegean sea from Turkey. Greek premier Alexis Tsipras said on October 6 that Athens would upgrade its refugee facilities by November to tackle the growing influx from Syria as the EU pledged 600 extra staff to help. Europe is grappling with its biggest migration challenge since World War II, with the main surge coming from civil war-torn Syria. AFP PHOTO / ARIS MESSINIS

Aleteia - pubblicato il 13/10/15

La storia di "Joseph" e della sua odissea in cerca della libertà

di Wael Salibi

La guerra civile siriana ha provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati. Ha distrutto la vita di antiche comunità cristiane che possono far risalire la propria esistenza ai tempi apostolici.

Il conflitto ha anche fatto sì che centinaia di migliaia di persone cerchino rifugio in Occidente.

Uno di loro, un cristiano che chiameremo Joseph, ha condiviso la sua storia con Aleteia. La sua è una vicenda tremenda di guerra, morte in mare, malattia e prigionia.

Condivisa originariamente con Aleteia attraverso Whatsapp, la storia di Joseph è stata pubblicata in arabo e riadattata.

In Siria studiavo Ingegneria meccanica ed ero quasi alla fine del corso, quando il conflitto sempre più cruento mi ha costretto ad abbandonare l’università. Non sono riuscito ad ottenere lo status di rifugiato in uno dei Paesi del Golfo e non sono riuscito a trovare lavoro in Turchia, ma alla fine ne ho trovato uno in Libano. La situazione per i siriani in Libano è tuttavia diventata difficile, per cui sono tornato in Turchia con i miei cugini. Siamo finiti nella città portuale di Bodrum, dove insieme a un amico, a sua moglie, ai suoi bambini e a sua sorella siamo partiti su un’imbarcazione gonfiabile alla volta della Grecia. Ci abbiamo provato tre volte, ma o per un’avaria del motore o per il rischio di capovolgerci abbiamo deciso di cercare l’aiuto di alcune persone che si guadagnano da vivere sfruttando la situazione drammatica di persone come noi.

Ci siamo riuniti in un albergo con circa 300 persone, tra cui almeno 75 cristiani. I contrabbandieri ci hanno costretti a entrare in camion refrigerati usati per trasportare la carne. Siamo rimasti dentro a quei veicoli per un’ora e mezza e abbiamo pensato che saremmo morti.

Tracciavo il viaggio con il GPS, e quindi sono riuscito a vedere che stavamo andando a nord di un’area chiamata Surba. Lì ci hanno fatti scendere. Ci siamo trovati in cima a una scogliera. Siamo scesi giù, tra rocce e cespugli. Ci sono volute due ore e mezzo per raggiungere la riva. Eravamo esausti. Alcuni di noi hanno cercato di tornare indietro ma non ci sono riusciti. Ora eravamo nelle mani dei turchi e dei contrabbandieri, che ci hanno trattati come cani. Ma dovevamo andare avanti. Siamo rimasti lì circa tre ore prima che arrivasse l’imbarcazione.

Quando siamo saliti, ci siamo resi conto delle cattive condizioni di quella barca. Le famiglie stavano sottocoperta, i giovani sopra. Mi sono seduto vicino al pilota, che era di Latakia, ma presto uno dei rifugiati che aveva qualche nozione di navigazione ha preso il timone.

Per un’ora abbiamo viaggiato senza problemi, ma poi è apparsa un’imbarcazione della guardia costiera. Hanno iniziato a girarci intorno. All’inizio non ci siamo fermati, per questo hanno iniziato a girarci attorno molto velocemente, e le onde che sollevavano minacciavano di farci rovesciare. La gente ha cominciato a entrare nel panico. Abbiamo mostrato i bambini che viaggiavano con noi, ma loro hanno iniziato a spararci contro, non so se hanno sparato prima in aria o allo scafo della barca. Tutto questo continuando sempre a girarci attorno e puntando le videocamere contro di noi.

Alla fine si sono fermati, ma l’acqua aveva ormai iniziato a entrare nella nostra imbarcazione. Ci hanno chiesto di spostarci verso il retro della barca, e quindi ci siamo riuniti lì, ma la barca ha iniziato a imbarcare acqua molto rapidamente. Hanno fatto salire alcuni dei bambini, delle donne e degli uomini su una piccola imbarcazione. La nostra barca è affondata, e mentre alcuni di quelli che erano sottocoperta sono riusciti a uscire, altri sono rimasti intrappolati. Abbiamo perso circa 30 persone, tra cui 13 bambini. Un’intera famiglia è morta.

All’improvviso eravamo tutti in acqua. Io non indossavo un giubbotto salvagente. Ne ho trovato uno e l’ho dato a una ragazza, e sono andato ad aiutare gli altri. I membri della guardia costiera ci filmavano da circa 200-300 metri. La gente nuotava intorno a loro implorando aiuto, ma loro si spostavano ogni volta che ci avvicinavamo. Ci siamo sentiti disperati. Anche gli aerei che volavano sopra di noi stavano filmando l’accaduto.

Alla fine la guardia costiera ci ha tirato alcune corde e così siamo saliti a bordo. Siamo rimasti seduti tre ore sotto il sole. Non sapevamo cosa stessero aspettando. Poi ci hanno portati al loro quartier generale a Bodrum. Ci hanno riuniti in un piccolo molo per quasi quattro ore, poi ci hanno divisi in tre o quattro gruppi e ci hanno portato ai centri della polizia turca. Siamo rimasti lì per 24 ore. Eravamo a terra senza coperte. Ci hanno dato un po’ di cibo, ma non abbastanza per tutti, e pochissima acqua. Alcuni di noi sono rimasti senza mangiare.

Il giorno dopo sono arrivati degli autobus e ci hanno detto che saremmo stati portati a Mugla, a circa 60 chilometri di distanza, ma sapevamo che non stavamo andando a Mugla, ma in un campo. Ci siamo rifiutati di salire sugli autobus e abbiamo formato un muro di donne e bambini. I giovani stavano dietro, ma siamo stati picchiati e costretti a salire. Uomini armati in abiti civili sono veuti con noi. Probabilmente erano dell’intelligence turca. La polizia ha scortato gli autobus durante il viaggio, che ha richiesto 18-20 ore. Non sapevamo dove fossimo. Ci siamo fermati per mangiare e bere e abbiamo cercato di opporre resistenza e di rifiutarci di tornare sugli autobus.

Non è servito a niente. Alla fine siamo arrivati a un campo chiamato Ottomany, nella provincia di Docitchy. Ci siamo sentiti perduti. C’erano guardie ovunque: recinzione, torri di vedetta e telecamere. Era una zona montuosa in cui la temperatura scende molto di notte, e i caravan in cui stavamo non riuscivano a isolarci bene dal freddo. Il cibo era cattivo: solo bulghur o riso per pranzo e cena. Abbiamo saputo che un ragazzo è morto nella sua stanza ed è rimasto lì fin quando i suoi amici non lo hanno portato fuori.

Alla fine abbiamo scoperto che era una prigione e non un campo, e che vi erano reclusi dei militanti islamici. Abbiamo visto alcuni dei feriti della guerra in Siria. C’erano anche dei mendicanti, e abbiamo scoperto che erano lì perché accusati di chiedere l’elemosina.

Di recente, un gruppo dell’UNHCR è arrivato e ha condotto delle interviste. Non ci è stato promesso niente. Hanno detto che stavano lavorando a un rapporto e che lo avrebbero consegnato alle Nazioni Unite.

Il 6 ottobre le autorità turche hanno iniziato a rilasciarci. Ci hanno portato alla stazione degli autobus e ci hanno lasciati lì, molti in condizioni di salute deplorevoli. Molti dei bambini avevano bisogno di andare in ospedale.

Sono andato a Istanbul con un gruppo di 20 persone, tra cui donne e bambini. Ho cercato aiuto dalla Chiesa. Molti di noi cercheranno nuovamente di arrivare in Europa. Non abbiamo altra scelta.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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