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Vivere nella Trappa ti intrappola!

Monjes rezando – it

© Philippe Lissac /GODONG

Manuel Bru - pubblicato il 14/01/15

Una cosa è il ritmo di vita, un'altra l'accelerazione con cui viviamo

Vivere tre giorni in un monastero trappista come quello di San Isidro de Dueñas a Palencia (Spagna) è un’esperienza fantastica, affascinante e sorprendente, soprattutto se – come nel mio caso – non si è ospiti, ma come se si fosse un altro monaco, dormendo in una delle loro celle, recitando l’officio divino insieme al priore e partecipando a tutti i loro momenti (ad eccezione del lavoro manuale e al quarto d’ora quotidiano di capitolo).

Mi viene chiesto di parlare in due momenti della giornata, nel periodo dedicato alla Lectio Divina, o in questo caso alla formazione permanente, dei nuovi movimenti e comunità ecclesiali, che in questo contesto mi sembrano gabbiani che accompagnano nella traversata della Chiesa una grande barca, quella della vita contemplativa.

Mi è sembrato fantastico constatare una regola della fisica che a noi, rumorosi uomini e donne del nostro secolo, sfugge. I monaci manifestano prodigiosamente che una cosa è il ritmo di vita e un’altra l’accelerazione con la quale viviamo.

Per noi introdurre più ritmo nei nostri compiti quotidiani significa andare più in fretta in tutto, lasciare tutto a metà e alla fine stressarci. Per i monaci no. Cambiano venti volte attività nel corso della giornata, il doppio rispetto a noi.

Ciascuna di queste attività, però, viene svolta senza fretta, con armonia, con solennità. Non sono contemplativi solo perché pregano più di noi, ma perché tutto il giorno (ora et labora) è una successione di momenti completamente diversi di contemplazione.

Mi è sembrato affascinante il refettorio. Un monaco esegue la lettura spirituale dal pulpito. Ogni monaco lava e asciuga il suo piatto. Lo lascia nell’armadio. I coperti tornano a tavola e vengono coperti insieme al bicchiere con il tovagliolo, come se fosse un corporale. Tutta la giornata del monaco è una completa “liturgia delle ore”. Capisco perché San Rafael Arnaiz ha scelto questo luogo per diventare santo e lasciarci di passaggio l’eredità dei suoi scritti spirituali e dei suoi quadri.

La preghiera corale per me è stata sorprendente. È come se i secoli non fossero passati, o come se questa preghiera li avesse uniti e sostenuti. Minima luminosità, massimo silenzio. Entriamo in processione, ma non a passo di marcia.

Un monaco giovane, alto e robusto, si appende letteralmente alla corda che fa suonare le campane, con uno sforzo fisico ritmico e intenso che le palestre alla moda invidierebbero sicuramente. Le campane suonano e tutto il vicinato, da secoli, vive in comunione con i suoi monaci.

È come se le voci giungessero da fuori, da angeli nascosti negli oscuri angoli del tempio, e i monaci assistessero in silenzio pregando. Una volta superata una certa sensazione di sopraffazione, come se gli occhi e le orecchie dell’invitato fossero telecamere e microfoni occulti inseriti clandestinamente in un altro mondo che non è il suo, stupirsi ed elevarsi è immediato. Tutto è sublime. Tre giorni volano, ma lasciano nostalgia dell’eterno.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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