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Ho pianto e ho pure riso

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La Croce - Quotidiano - pubblicato il 16/10/14

L'esperienza di una confessione sacramentale ricca di grazia

di Paola Belletti

Sono andata a confessarmi. Cerco di farlo almeno una volta al mese. Desidererei farlo di più. Ho scelto il Santuario vicino a casa, un bel santuario mariano come ce ne sono molti in Italia. Anche ad un’osservazione frettolosa ci si accorge subito che è frequentato, vivace.

Tutto un via vai di pullman, ondate di pellegrini over ’60, facciamo anche over ’75, che si dirigono acciaccati ma spediti dalla madonnina e poi al negozio di souvenir. Ma anche molti giovani, molte persone e basta insomma. Anche alla Messa delle 7.00 e a quella delle 9.00. nei giorni feriali.

Prego da tempo perché il Signore mi faccia imbattere in un bravo confessore che magari potrebbe pure sobbarcarsi l’onere di una vera e propria direzione spirituale. O almeno che mi aiuti ad averla una direzione e a smetterla di girare in tondo.

Essendo un santuario molto frequentato e avendo una grande area dedicata alle confessioni, trovo coda. Aspetto il mio turno iniziando molte volte l’esame di coscienza, così come me lo ricordo dal catechismo delle elementari.

Poi però do un’occhiata in giro e mi imbatto nel foglio lasciato sui banchi per aiutare i fedeli nella preparazione al sacramento. Poi mi viene in mente che avevo letto una bella riflessione di S. Giovanni Paolo II da qualche parte, la trovo sul mio sdrucito libretto di preghiere che di solito mi segue in borsa. Resisto a fatica alla tentazione di approfondire la ricerca su google.

Ecco, è il mio turno. Preparatissima sulle prime due domande dell’esame e decisa ad improvvisare sul resto entro e mi inginocchio.

Mi accoglie un sacerdote anziano. Inizio a consegnare con la voce e col cuore i miei peccati a Dio e approfitto del fatto che ci sia una persona costretta ad ascoltarmi per aprire le cateratte e piangere di nuovo per il mio bimbo malato.

Accidenti volevo essere più asciutta.. Perché mi lascio andare così, perché non riesco a trattenere le lacrime? Va bene. Non importa; usiamoci un po’ di indulgenza. E poi chissà che non arrivi qualche preziosa parola di consolazione da questo caro sacerdote. In effetti spende qualche parola in più per me.

Racconta di sua madre, dei suoi molti figli, del fatto che allora non c’erano ecografie e controlli e indagini come succede ora e forse era meglio. Era meglio? Mi chiedo. Non lo so. A me, a noi tocca vivere in quest’epoca di gravidanze commissariate dai medici e caricate di ansie indicibili.

A me è toccato di vivere quella del nostro ultimo nato con molta angoscia, torturandomi nelle sale d’attesa di molti luminari, sottoponendo me e lui a risonanze magnetiche e numerosi esami. Rispondendo tante e tante volte alle stesse domande involontariamente crudeli. Senza ottenere risposte umane soddisfacenti. E ora ci tocca il dolore di accompagnarlo in una malattia ancora misteriosa ma seria, antipatica da morire, perfida addirittura. Certo, di malattie simpatiche non credo ce ne siano molte.

Ho parlato di questo tra i singhiozzi al caro sacerdote.

Devo avere singhiozzato troppo perché ha voluto lasciarmi con un po’ (troppo poca) di saggezza popolare. Mi ha detto, citando sua madre, che a lei , quando nascevano i suoi figli, andava bene tutto: “ l’importante è che fossero sani”.
Ho pianto e ho pure riso molto. E sono uscita, grazie a quel sacerdote, con la mia anima candida e un Dio del tutto smemorato dei miei molti e sciocchi peccati.

L’importante è la salute.

L’importante è la salvezza.

Sia Benedetto il Nome del Signore.

Qui l’originale

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