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Cure palliative perinatali: accompagnando il parto e il congedo

Baby on mother’s breast

© Public Domain

Revista Misión - pubblicato il 14/10/14

Intervista alla neonatologa Ana Martín, dell'ospedale San Juan de Dios di Barcellona

Ci sono bambini che molto probabilmente moriranno nell’utero materno, dopo il parto o nei primi giorni di vita extrauterina. Soffrono di patologie o malformazioni gravi incompatibili con la vita.

Anche se la diagnosi di questi bambini è letale, si può fare molto per loro e per le loro famiglie. Non c’è una cura per loro, ma un’assistenza medica adeguata può aiutare a far sì che questi momenti tanto dolorosi siano un passo cruciale nella vita della famiglia che accoglie, ama e accompagna un piccolo nel suo breve passaggio per la vita.

Sono esperti di questi casi difficili la neonatologa Ana Martín Ancel e un’équipe professionale multidisciplinare dell’Ospedale San Juan de Dios di Barcellona (Spagna), dove hanno creato un programma di cure palliative perinatali che fornisce assistenza sanitaria completa sia ai bambini malati che alle loro famiglie.

Tutto inizia con la diagnosi più precisa possibile che aiuterà a prevedere il parto, così come la medicazione di cui il piccolo può avere bisogno.

Se c’è una diagnosi certa che il bambino morirà dopo la nascita, si cerca di far sì che il parto sia vaginale (non cesareo) e non si ricorre alla monitorizzazione né si segue la frequenza cardiaca.

Per questo, si cerca di effettuare una preparazione al parto individuale, visto che per queste donne che sanno che il giorno della nascita sarà anche quello dell’addio al loro bambino è doloroso assistere a corsi insieme a mamme che hanno bambini sani.

Come preparate i genitori a questo duro momento del parto e del congedo?
Ci sono bambini che vivono solo dieci minuti, mezz’ora, un’ora… Sono momenti estremamente brevi ma molto intensi, e in quegli aspetti a cui non si è pensato tutto passerà così rapidamente che non sarà possibile improvvisare.

Molti genitori sono grati perché abbiamo suggerito loro di scattare delle fotografie del loro bambino, visto che il tempo per custodire i ricordi tangibili del figlio si riduce alla gestazione e al breve tempo in cui vivrà. Custodire le immagini delle ecografie, un video o registrare il battito del cuore può essere molto importante.

A volte ci sono mamme e papà che scrivono un diario della gestazione, perché scrivere ciò che vivono li aiuta. Ogni famiglia trova il proprio modo.

Può anche aiutare il fatto che altri familiari o un amico intimo possano essere presenti quando si fanno le ecografie, e così la vita di questo bambino si apre anche ad altre persone. Altri genitori portano un vestito speciale per lui, o facciamo impronte a colori delle mani e dei piedi.

E ovviamente ci sono genitori che vogliono battezzare il loro bambino, per cui è importante pensare se possono avvisare qualche amico sacerdote, il cappellano dell’ospedale o imparare a farlo loro stessi.

Quali sono le principali paure dei genitori?
Dipende dalla famiglia, dalla patologia del bambino… C’è indubbiamente la possibile sofferenza del figlio, che al giorno d’oggi fortunatamente possiamo evitare. Nell’utero sarebbe del tutto eccezionale che un bambino provi dolore per una malattia o una malformazione, e quando i bambini nascono possiamo utilizzare dei farmaci per sedarli se è necessario o somministrare loro analgesici nel caso in cui abbiano dolore.

Molti si chiedono se saranno capaci di accompagnare il figlio, perché è una situazione emotivamente difficile e si preoccupano delle conseguenze che potrà avere sui fratelli.

La nostra esperienza è che i fratellini capiscono che il bambino che aspettano è malato, e spesso sono loro stessi, con la capacità che hanno di affrontare la realtà come viene, ad aiutare i genitori ad accogliere naturalmente il piccolo malato. A volte li preoccupa il momento della nascita perché è particolarmente duro, ancor di più se il bambino ha malformazioni importanti. In questo senso, ci chiedono aiuto perché li accompagniamo o perché, se il bambino ha qualche deformità evidente, l’impatto non sia eccessivo.

Ricevete molti casi?
In generale, sono pochi i bambini con malformazioni che richiedono questa attenzione, ma allo stesso tempo dobbiamo essere preparati, perché sono pazienti che hanno un bisogno particolare del nostro aiuto.

Le loro famiglie a volte sono piuttosto abbandonate – è triste dirlo –: ricevono una diagnosi e sembra che non si possa fare altro per loro, ma niente è più lontano dalla realtà!

Sappiamo tutti quanto siano importanti gli ultimi momenti nella vita di qualsiasi persona che amiamo. Accade lo stesso con questi bambini.

Da cosa dipende, di fronte alla diagnosi letale di un figlio, che alcuni genitori decidano di non abortire?
Senz’altro dalle prospettive di vita che hanno le famiglie e anche dall’attenzione che ricevono dal sistema sanitario.

Sono stati pubblicati pochissimi dati relativi a programmi di cure palliative perinatali, e la maggior parte fa riferimento a programmi degli Stati Uniti. In questi pochi dati pubblicati, però, colpisce che tra il 40 e il 70% dei genitori che hanno figli con questo tipo di malattie, quando si offre loro un programma di questo tipo, decida di accompagnare il figlio fino alla fine.

Se li lasciamo soli è molto più difficile: la gente la vive molto male e c’è una pressione molto forte verso l’aborto, per cui i genitori pensano che sia meglio porre fine alla situazione il prima possibile.

I programmi di cure palliative perinatali permettono ai genitori di prendere una decisione libera: non sono abbandonati, e se vogliono accompagnare il proprio figlio hanno le risorse per farlo.

Un’esperienza di questo tipo può arrivare ad essere positiva?
Quest’anno una prestigiosa rivista di genetica ha pubblicato i risultati di un sondaggio condotto su più di 400 padri e madri di bambini con trisomia 13 e 18. Sono malattie che tendono ad accorciare la vita, e molti bambini muoiono nell’utero o poco dopo la nascita, anche se alcuni, eccezionalmente, vivono di più.

L’articolo afferma che più del 90% dei genitori ritiene che questo figlio abbia migliorato la loro famiglia ed è contento di averlo accompagnato fino alla fine. E quando il bambino ha vissuto per più di tre mesi, più del 97% ritiene che il figlio sia stato felice.

Sono dati che la gente neanche immagina, perché sembra che sia tutto nero. L’esperienza di questi genitori, che danno tutto il proprio affetto al figlio e lo accompagnano fino alla fine, lo conoscono e lo abbracciano, è molto dolorosa da un lato, ma profondamente umana e molto arricchente dall’altro.

Cosa pensa del disegno di legge che eliminava il presupposto di malformazione per abortire?
La legge attualmente in vigore ha posto l’aborto nel campo dei diritti della donna, allontanandosi dalla complessa realtà in gioco. La donna incinta che pensa di abortire, in particolare quella che aspetta un bambino con una malformazione molto grave, vive un dramma estremamente doloroso.

E quanto più si sottolinea in modo astratto il diritto di questa gestante di “decidere del suo corpo”, più la si abbandona a una solitudine che censura il fatto che ciò che predomina in lei è l’amore per la nuova vita che si sviluppa nel suo grembo e l’immenso dolore per una malformazione inaspettata.

Ritengo che il disegno di legge presupponesse un importante passo avanti perché sopprimeva l’aborto come diritto e considerava i fattori più importanti – il concepito e la donna incinta – affrontando il problema, come minimo, nella chiave del conflitto di interessi. Logicamente, queste leggi non sono sufficienti; è necessario che le famiglie trovino sostegno medico specializzato, che abbiano accesso alle risorse necessarie per la cura dei propri figli durante la gestazione e dopo la nascita, e soprattutto che possano trovare nel loro ambiente familiari, amici e professionisti che diano loro il sostegno necessario per affrontare una situazione tanto difficile.

Eliminando questo presupposto, si costringerebbero le famiglie a una sofferenza insopportabile?
Con le cure perinatali, il nostro obiettivo è, tra gli altri, evitare che i bambini che moriranno debbano soffrire, e per questo al giorno d’oggi abbiamo risorse più che sufficienti.

Un bambino che morirà in utero soffre in casi eccezionali. Non conosco alcun caso in cui si sia dimostrata la sofferenza per una malattia fetale.

Dopo la nascita, quando potrebbe esserci una sensazione di ansia o anche di dolore, abbiamo mezzi sufficienti perché i bambini non soffrano.

Perché nell’utero non c’è dolore?
Potrebbe esserci se, ad esempio, effettuassimo un intervento su un feto di 25 settimane. Sappiamo che i bambini, in questa età gestazionale, possono soffrire, e per questo somministriamo loro analgesici perché non soffrano per gli interventi che a volte effettuiamo.

Le patologie e malformazioni dei bambini in utero, ad ogni modo, non provocano sofferenza.

Ad esempio, un bambino che ha i polmoni appena sviluppati, nell’utero non sente dolore perché non ha bisogno di loro; quando nasce, però, può avere la sensazione di soffocamento, nel qual caso è necessario medicarlo.

Neanche un bambino anencefalico, con uno sviluppo carente del cranio e del sistema nervoso centrale, prova dolore. Non soffre non perché non abbia la capacità di soffrire se noi gli facciamo male, ma perché quelle patologie non provocano dolore in utero.

Cosa raccomanderebbe a dei genitori il cui figlio ha ricevuto una diagnosi letale?
È molto importante che chiedano aiuto, in primo luogo, alle persone che sono loro più vicine, ed è anche fondamentale trovare un’équipe medica che li accompagni. È importante cercare centri in cui le famiglie capiscano che loro figlio è importante per i medici e che desiderano lottare per quel bambino fino alla fine.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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