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Dei figli e della fede

The sons do not speak with parents

Galina Barskaya/SHUTTERSTOCK

Vinonuovo.it - pubblicato il 16/07/14

Oggi devo credere, e molto. Il futuro è sempre una promessa. Ma io devo crederci anche per loro; anche se vanno altrove rispetto alle mie ipotesi

di Maria Elisabetta Gandolfi

Quando discuto con i miei figli soffro. Soffrivo anche quando non dormivo di notte o mi sembrava di venire sopraffatta da giornate scandite da pappine o da pannolini: era una (in)sofferenza diversa, buona, oggi lo capisco bene. Allora si trattava di uno sfinimento fisico e davanti a me si poteva aprire un futuro luminoso, promettente di molte possibilità. Pregavo per i miei figli ma mi illudevo di poterli coprire con la mia preghiera per tutto il bene "fisico" che avrei potuto loro augurare. Il resto… sarebbe arrivato e in qualche misura è arrivato in fretta.

Per fortuna, naturalmente: non potevo sopportare quando mi si diceva da ragazzina che era bello quando noi figli eravamo bambini piccoli, che volevamo stare in braccio! Che sottintendeva l'idea che la crescita dei figli fosse un fastidio per gli adulti.

Oggi comprendo quelle affermazioni e ricordo il tempo dell'infanzia dei figli come un tempo tutto sommato dorato: di fatica, sì, ma di tanto futuro.

Con i figli adolescenti molto cambia e cambia anche la visione di quel futuro a volte tanto incerto da essere aperto quasi solo da una fede: so che oggi vedo di te solo un pezzo, solo una parte e forse non la migliore e che tu sei molto di più di quello che oggi io vedo, che oggi si vede di te.

Oggi devo credere, e molto. Il futuro è sempre una promessa. Ma io devo crederci anche per loro; anche se vanno altrove rispetto alle mie ipotesi, anche se a volte sembrano divertirsi a mettere alla prova la mia fede in loro e in Dio.
Oggi spero. Di quella speranza che rimette nelle mani di chi i figli ce li ha donati i tanti interrogativi a cui non so proprio come rispondere.

Oggi devo avere molta carità, molta carità, così tanta che non so se sarò capace da sola d'avere una misura così abbondante: verso me stessa e i miei limiti; e verso chi vorrebbe anestetizzare le fatiche del crescere e del diventare adulto con consolazioni dolciastre: "l'importante è sentirsi bene, si vede che è a suo agio, in fondo poi è una brava persona, serena". Senza vedere i limiti e con essi altri traguardi da raggiungere e non solo il quotidiano accontentarsi del "l'importante è la salute, mangiare sano ed essere felici". Già: ma che cos'è la felicità? Non parliamo poi della verità.
Però oggi mi arrabbio. Anche per la solitudine in cui due poveri genitori (e non posso che ringraziare il cielo di non essere un genitore solo) che si arrabattano a dare un senso alle fragili esistenze dei figli e altri genitori tutti intorno a stupirsi: "ma chi l'avrebbe mai detto?" dopo aver chiuso occhi naso e orecchie se un ragazzo o se una ragazza è lì che gioca al funambolo su qualche ciglio dell'esistenza. "Non è mica mio figlio".

Per carità, non tutti gli strapiombi sono uguali. Ma per risalire occorre tanta fiducia e tanta fede. Occorre anche che qualcuno sia lì per tenderti la mano.

E io dovrei perdonare. Da sola non posso farcela: devo essere io stessa perdonata per poter a mia volta compiere questo gesto folle e insensato agli occhi del mondo.

Così continuo a discutere, continuiamo a discutere con i figli, per dire "No, così non va; dai prova a fermarti; parliamo; pensiamoci su. C'è tanta vita da vivere. Non buttiamola per leggerezza". Con la fiducia che anche le nostre povere parole inascoltate non saranno state – forse – seminate inutilmente.

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