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Meriam finalmente rilasciata

Meriam Ibrahim – AFP

© AFP

SUDAN, OMDURMAN : Meriam Yahia Ibrahim Ishag, a 27-year-old Christian Sudanese woman sentenced to hang for apostasy, sits in her cell with her baby girl a day after she gave her birth at a women's prison in Khartoum's twin city of Omdurman on May 28, 2014. Sudan denied on June 1, 2014 Ishag would be freed soon, saying quotes attributed to a foreign ministry official had been taken out of context. AFP PHOTO / STR

Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 27/06/14

Libera dalla prigione, ma non ancora di lasciare il paese, la giovane donna cristiana

Condannata a morte e per apostasia (cioè ripudio della fede, in questo caso islamica) e oltre a questo a 100 frustate per adulterio (in quanto avrebbe sposato un cristiano, cosa che rende invalido il matrimonio canonico per la Sharia) a maggio. La Corte d’appello del Sudan aveva annullato pochi giorni fa la sentenza e rimesso in libertà Meriam, che nel frattempo ha partorito. Il giorno dopo l’annullamento la donna e la sua famiglia si sono recati in aeroporto a Khartoum per lasciare il paese e raggiungere gli Usa, che si sono offerti di ospitarla. Giunta ai controlli di routine, ben 50 membri dei servizi segreti l’hanno fermata e trasferita, insieme al marito e ai figli, in un centro di detenzione vicino all’aeroporto. E’ stata interrogata, con l’accusa di aver utilizzato dei documenti irregolari per lasciare il Paese: un visto americano e un documento rilasciato dall’ambasciata del Sud Sudan. La donna è stata ieri rilasciata (La Stampa, 26 giugno).

Proprio per questo, mercoledì 25, il ministero degli Esteri sudanese ha convocato gli ambasciatori degli Stati Uniti e del Sud Sudan. I diplomatici di stanza a Juba hanno ammesso di aver consegnato a Meriam il «documento di viaggio di emergenza» con il quale la donna intendeva imbarcarsi per il Sud Sudan. Ne è venuto fuori un momento di tensione tra le diplomazie: le autorità di Khartum, infatti, hanno condannato il tentativo di Washington di facilitare la partenza di Meriam, considerandolo una violazione delle leggi sudanesi sull’immigrazione. Il portavoce del ministro degli Esteri, Abu Bakr al-Sideeg, ha detto che Meriam avrà la piena libertà di viaggiare nel momento in cui seguirà le dovute procedure legali e avrà i documenti di identificazione in regola. Secondo al-Sideeg, a Meriam non poteva essere rilasciato il «documento di viaggio di emergenza» da parte dell’ambasciata sud sudanese, in quanto non è cittadina del Sud Sudan, Paese di cui è invece originario il marito (Avvenire, 27 giugno).

La realtà è che i documenti, molto probabilmente, non fossero l’unica motivazione del fermo (che non giustificherebbe per una famiglia disarmata, l’impiego di 50 agenti). Infatti in un’intervista rilasciata al giornale sudanese Al Intibaha e riportata dal Telegraph, il fratello di Meriam, Al Samani Al Hadi Mohamed Abdullah, ha dichiarato di essere andato dalla polizia per denunciare il «rapimento» di Meriam da parte del marito, poco prima che lei cercasse di partire per gli Stati Uniti. Si tratta dello stesso parente della donna che pochi giorni fa aveva dichiarato che «se non si fosse pentita, avrebbe dovuto morire». Ora Meriam è di nuovo libera, ma non ancora definitivamente al sicuro (La Stampa, 26 giugno).

Il problema è evidentemente anche politico, vista l’enorme pressione internazionale che il regime di Khartum ha dovuto sin qui fronteggiare sulla vicenda. C’è chi ritiene, anche alla luce degli ultimi sviluppi, che la questione potrà chiudersi presto, forse già domenica, e che le autorità sudanesi stanno già preparando per Meriam il passaporto necessario per l’espatrio. Ma c’è anche chi ricorda che per aver infranto le leggi sull’immigrazione la donna rischia un nuovo processo e fino a sette anni di carcere (Avvenire, 27 giugno).

La libertà di Meriam è ancora in discussione, mentre nel frattempo, la donna e la sua famiglia, hanno trovato rifugio presso l’Ambasciata degli Stati Uniti.

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