Intervista al prof. Massimo Gandolfini, perito consultore neurochirurgo presso la Santa Sede, autore del libro "I volti della coscienza"
“I volti della coscienza. Il cervello è organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza” è il titolo del libro del prof. Massimo Gandolfini, edito da Cantagalli, che, in 150 pagine, tratta un argomento enorme: la coscienza, un mondo che vale la pena esplorare. Gandolfini, è direttore del Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione Poliambulanza di Brescia, vicepresidente nazionale dell’Associazione Scienza&Vita, oltre che perito consultore neurochirurgo presso la Santa Sede, membro di numerosi organi istituzionali a carattere bioetico.
Come nasce questo libro?
Gandolfini: Nasce perché la bibliografia sull’argomento delle neuroscienze, in particolare sulla coscienza, va letta alla luce delle nuove scoperte e delle tecnologie che le hanno permesse. Parliamo di neurobiologia della coscienza che è un’acquisizione molto recente. La bibliografia è molto ricca ma ha una tendenza molto riduzionista dal punto di vista antropologico e filosofico.
Cos’è la coscienza?
Gandolfini: Il termine deriva da cum scire, sapere insieme: un equilibrio tra centro intellettivo, sensitivo, motorio ed emozionale. Aristotele è stato forse il primo ad affrontare il tema della coscienza che lui chiamò synderesis, dal greco syn, insieme, tereo, osservare, cioè esiste una funzione che ci permette di osservare e di mettere insieme tutti i percetti visivi. La coscienza è il grande tema della filosofia, in particolare della filosofia morale. Filosofi come sant’Agostino e san Tommaso l’hanno sempre definita funzione simbolica superiore. Oggi si parla di neurobiologia della coscienza.
Il cervello può spiegare la coscienza?
Gandolfini: No. Se questo fosse vero cadrebbe la libertà, il libero arbitrio; se cade la libertà cade la responsabilità. Oggi si sta parlando moltissimo di questo in branche delle neuroscienze; si sta pensando addirittura in ambito legale se possa avere un valore la prova di una certa costituzione del cervello per ridurre l’imputabilità del soggetto.
Coma, stato vegetativo, stato di minima coscienza. Di che si tratta?
Gandolfini: Sono disturbi della coscienza che dicono come siamo in grado di esercitare la nostra funzione cosciente. I due termini fondamentali della coscienza sono la consapevolezza e la veglia. I disturbi della coscienza vanno distinti chiaramente. Il coma è lo stato di abolizione della coscienza nelle sue funzioni somatiche. Il paziente è immobile ad occhi chiusi, non risvegliabile ed in assenza di risposte finalizzate a stimoli esterni. Qualsiasi altra fattispecie di disturbo della coscienza che non ha queste caratteristiche non è coma.
Quanto dura il coma?
Gandolfini: Oggi con le tecniche intensivistiche di rianimazioni un coma non più di 6-8 settimane. Qualche giorno fa è ricorso l’anniversario della morte di Eluana Englaro. Durante quel periodo, cinque anni fa, si sentirono le bugie più universali che potessero esistere. Frasi del tipo: “E’ in coma da 17 anni”, ma non è per nulla così. Il coma non è una situazione indefinita che può durare nel tempo, ma una sorta di rotonda con delle uscite: prima o poi bisogna prenderne una. La prima è la morte; poi una continua ripresa fino ad arrivare alla guarigione, più o meno completa. Infine lo stato vegetativo (SV) quando questa parabola che porta verso la piena guarigione s’interrompe. Dopo 6-8 settimane una di queste strade necessariamente si apre.
Cos’è lo Stato Vegetativo?
Gandolfini. È uno stato di non evidenza di consapevolezza, caratterizzato da una grave lesione della coscienza durante la quale il paziente è sveglio, ha gli occhi aperti e un contatto indefinibile con l’ambiente. Gli studi ci vanno svelando un mondo prima ignoto. E la terminologia sta cambiando. Il termine vegetativo nell’immaginario collettivo, è uguale a vegetale, cioè quella persona cessa di appartenere alla specie umana e passa direttamente al regno vegetale. Questo ha delle ricadute nella mentalità e nella cultura pubblica. Innanzitutto non si può più chiamare permanente-persistente perché sono almeno una trentina i casi di risveglio trattati e documentati dopo 10 anni di SVP. Bisognerebbe chiamarlo “sindrome della veglia non responsiva” o “disturbo prolungato di coscienza”. Questi pazienti sono svegli, ricevono sicuramente una percezione da stimoli esterni; è come se ci fosse un versante afferente a loro, ma non sono in grado di comunicare che tipo di stimolo è arrivato.