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Educare alla ricerca dialogica della verità

Educare al dialogo verità

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Giuseppe Savagnone - Vinonuovo.it - pubblicato il 17/10/13

Se è fin dall'inizio ovvio che di discutere non vale la pena, allora non cercherò di convincerti, farò meglio a vincerti

Il professor Giuseppe Savagnone ha pubblicato recentemente per l'editrice Elledici un nuovo libro intitolato «Educare nel tempo della post-modernità». È un volume in cui affronta nove sfide che il tempo presente pone alla dimensione dell'educare, con lo sguardo di chi prova a guardare in avanti più che rimpiangere i tempi che furono. Nel capitolo sesto – intitolato «la sfida del pluralismo» – affronta Savagnone un tema che ritorna spesso anche nel dibattito tra i lettori di Vino Nuovo: la questione del rapporto tra relativismo, pluralismo e ricerca della verità. Proponiamo quindi qui sotto una pagina tratta dal libro come contributo alla riflessione.


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Forse il punto di partenza migliore per un'educazione al pluralismo che non indulga alla tentazione del relativismo, è una riflessione sulla relatività. Chi sostiene che «ognuno ha la sua verità e che quindi non ne esiste nessuna al di fuori delle opinioni soggettive», elimina in sostanza la relatività delle proprie idee rispetto alla realtà. Solo la consapevolezza che le proprie certezze non hanno automaticamente la garanzia di essere vere, ma devono essere confrontate con la realtà, può rendere sanamente dubbiosi. Al contrario, relativizzare la verità alla coscienza, come fanno i relativisti, rende – lo si voglia o no – infallibili. Il relativismo è una forma mascherata di dogmatismo che svuota il senso della ricerca. Al pari dell'assolutismo fondamentalista che non costituisce affatto, come sembra credere Giulio Giorello, l'unica alternativa ad esso, ma al contrario gli somiglia come un fratello gemello simmetrico e opposto.

Il modo più efficace di educare i giovani al pluralismo coincide dunque con l'educarli alla ricerca incessante della verità. Questo passa attraverso l'educazione al dialogo. Si diceva prima che esso suppone la consapevolezza che il proprio punto di vista potrebbe essere errato o almeno incompleto, in altri termini che vi sia una verità con cui dobbiamo sempre misurarci.

Non è vero che la verità è violenta. È esattamente il contrario: dalla sfiducia nella verità razionale nasce la rinunzia alle «ragioni» e scatta la prevaricazione del più forte: «Se infatti in materia di valore non c'è verità e falsità, se l'etica è sempre e comunque relativa, allora non vale neppure la pena di mettersi a discutere: non vale la pena che io cerchi di comprendere le tue ragioni, per comprendere con il massimo di onestà se sono buone ragioni. Ma se è fin dall'inizio ovvio che di discutere non vale la pena, perché non c'è niente di oggettivo su cui discutere, allora non cercherò di convincerti farò meglio a vincerti» (Roberta De Monticelli).

Ciò comporta il superamento dell'atteggiamento emotivista di chi affida la propria percezione del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto, a stati d'animo incontrollati. «Ogni volta che si fa di una scelta una questione di gusti l'ambito di quella scelta viene sottratto alla discussione» (Diego Marconi). Abbiamo già notato, in precedenza, che per un corretto approccio alla realtà la sfera razionale e quella emotiva devono entrare in una circolarità virtuosa che esclude l'unilaterale insistenza sull'una o sull'altra e implica la loro integrazione.

Ne consegue che, anche in ambito politico, un autentico pluralismo non può fondarsi sull'assunzione acritica delle «proprie preferenze personali», come sostiene Giorello. Questo, purtroppo, è ciò che oggi accade quando sono sul tappeto questioni etiche su cui è necessaria una scelta a livello legislativo. Spesso, in questi casi, l'individuo «è concepito come qualcuno che giunge al dibattito con una prospettiva morale comunque già definita, della cui validità non sembra possibile discutere, giacché essa è costituita da preferenze, interessi e desideri che sfuggono per definizione ad una disamina critica» (Roberto Mordacci). A questo punto, sulla scena pubblica – come nel mercato – «i dati ultimi sono le preferenze. Come si giunga ad esse è irrilevante. Si ritiene che il solo fatto che la gente abbia questa preferenze fornisca da solo una ragione sufficiente per agire in modo da soddisfarle» (Alasdair MacIntyre).

Abbiamo davanti agli occhi, nella nostra vita pubblica, gli effetti di questa logica perversa. Invece di confrontarsi lealmente sulle rispettive ragioni, ci si aggredisce a vicenda a colpi di slogan. Ritorna il monito della De Monticelli: «Se è fin dall'inizio ovvio che di discutere non vale la pena, perché non c'è niente di oggettivo su cui discutere, allora non cercherò di convincerti, farò meglio a vincerti». È la rinunzia a raggiungere una visione condivisa – o almeno ragionevolmente condivisibile – di ciò che, in una dato contesto storico, può costituire per una società il bene di tutti, il bene comune.

Al contrario, educare al pluralismo autentico – quello che suppone la possibilità dell'errore e della verità, l'ascolto degli altri e la sincera ricerca – significa al tempo stesso educare alla cittadinanza democratica, al di là sia della logica della sopraffazione reciproca, sia di quella mera coesistenza, all'interno della stessa comunità politica, di visioni tra loro incomunicabili, eliminando la prospettiva del bene comune.

Un'educazione al pluralismo comporta, in questo senso, quella che è stata chiamata «la convivialità delle differenze», dove proprio la fiducia nella verità porta ognuno a prendere sul serio gli argomenti degli altri partecipanti al dibattito pubblico e a cercare una convergenza frutto non di abili compromessi, ma di un autentico approfondimento delle questioni.

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