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Pensate di non riuscire a riprendervi dopo un fallimento? Ascoltate Padre Anselm Grün

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Edifa - pubblicato il 20/12/19

Fallimenti amorosi, professionali...il fallimento ci fa paura. È sempre difficile da vivere e da accettare, ma può essere un formidabile trampolino di lancio per la nostra felicità, anche se a determinate condizioni…

Intervista di Luc Adrian

Non dobbiamo fare dell’accettazione del fallimento un’ideologia, non c’è assolutamente bisogno di fallire per essere felici, ma è un dato di fatto: non possiamo fare a meno di fallire poiché è una caratteristica essenziale dell’essere umano. Per il monaco benedettino tedesco Anselm Grün, questa dolorosa esperienza può essere una vera opportunità per una rinascita, un’apertura a Dio e il nuovo inizio di una vera felicità.

Lei come definisce il fallimento?

Padre Anselm Grün: In tedesco, “scheitern” (fallire) deriva da “scheit” (tronchetto, pezzo di legno) e “scheiden” (tagliare, separare). Fallire è separare ciò che era uno solo, l’unità si rompe, il tutto va in pezzi, il progetto iniziale non riesce ad andare in porto e si frantuma. La parola “scheiden” è usata, ad esempio, per indicare il fallimento di un matrimonio: la coppia divorzia e si separa.
Troviamo questa parola anche in ” Abschied”, che significa “Addio”: ogni fallimento è dunque un addio all’immagine ideale che ci eravamo fatti della vita e di noi stessi. Nella parola “Verscheiden” che significa “morire”, il fallimento ha a che fare qualcosa anche con la morte, cioè muore qualcosa in cui avevamo riposto tutte le nostre speranze. Nel mio amore, la mia vocazione, il mio impegno, non ho ottenuto ciò che mi aspettavo, ma al contrario il risultato è stato negativo, sfortunato e il mio sogno si è infranto.

In quali condizioni questa disavventura può essere un’opportunità di crescita?

E se lo accettassimo, se ci fermassimo a chiederci se il nostro progetto di vita non era stato finora troppo unilaterale e limitato? Nel cuore del fallimento, dobbiamo decidere quale nuova strada intraprendere, a patto di essere in grado di “discernere”, analizzare il perché del nostro fallimento e come potremo raccoglierne i pezzi per intraprendere una nuova vita.
Il fallimento può incoraggiarci a riunire i frammenti della nostra vita per tornare ad essere la persona unica che Dio vuole fare di noi. La felicità, a mio avviso, non è solo essere in armonia con sé stessi, ma anche con l’ “immagine” unica ed eccezionale che Dio ha di me. Tuttavia, il fallimento dimostra precisamente che abbiamo sostituito questa “immagine” divina con un’altra immagine che corrisponde più alle nostre rappresentazioni che alla volontà di Dio.

Molte persone falliscono e non hanno la possibilità di rialzarsi…

Esatto, ma non possiamo giudicarli, molte persone hanno una vita molto dura e io non so se avrei la forza di farcela se fossi nei loro panni. Però vediamo anche tante persone che sono sprofondate nella loro sofferenza perché non sono pronte a rompere con le false idee che hanno sulla vita. Sono così disillusi da loro stessi e “delusi” da Dio che rinunciano alla Speranza, ma è proprio nel fallimento che è importante invocare la fede in Dio, in quel Dio che risuscita i morti e desidera risuscitare noi dalla tomba delle nostre tenebre e dei nostri fallimenti.

Ogni fallimento è accompagnato da dei sensi di colpa e ciò non è forse un altro ostacolo alla felicità?

Il senso di colpa può paralizzare e torturare. Nel profondo del nostro cuore – che si tratti della coppia che fallisce, dei religiosi che lasciano l’ordine o del sacerdote il suo ministero – pensiamo che avremmo dovuto avere successo, che avremmo dovuto perseverare. Ma non ci siamo forse arresi all’egoismo? Non ci siamo forse lasciati influenzare dallo spirito del tempo, che parla solo di autostima? La strada da seguire non era quella di portare le difficoltà come una croce e ciò fino alla fine? Non ha senso reprimere il senso di colpa, anzi, bisogna guardarlo in faccia veramente.

I sensi di colpa non possono essere allarmi che ci avvertono che siamo in un vicolo cieco?

Possono infatti essere un segnale che ci stiamo smarrendo, ed è quindi un invito a vivere in modo più autentico. Il senso di colpa e la perdita di responsabilità possono diventare apertura se siamo in grado di resistergli. Ci dimostrano cioè che è impossibile attraversare la vita senza rischiare di sporcarsi le mani, che non siamo perfetti, che non possiamo esserlo e rompono le nostre sicurezze perentorie, così che Dio possa entrare nei nostri cuori.
Dobbiamo presentare la nostra colpa al Signore e credere nel suo perdono, allora potremo perdonare noi stessi e liberarci dai sensi di colpa attraverso la confessione che è un aiuto prezioso in questo senso.

Può il fallimento degli altri frantumare la nostra felicità?

Il fallimento degli altri contribuisce a destabilizzarci, ci costringe a mettere in discussione l’autenticità del nostro progetto di vita, sulla paura che abbiamo a cambiare vita e ci esorta a seguire la raccomandazione di San Paolo: “Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (Corinzi 10,12). Quando analizziamo con tutta sincerità la nostra vita, vediamo situazioni fallimentari, illusioni spezzate, vicoli cechi. Siamo esseri che hanno fallito, eppure nel fallimento dovremmo avere fede nella parola di San Paolo: “Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate provati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere.” (1 Corinzi 10,13)

Come definirebbe la felicità in confronto con la pace interiore?

La felicità è, secondo me, l’espressione della pace interiore, un sentimento che ci invade quando siamo in pace con noi stessi. La felicità, in tedesco, significa “successo della vita”, è l’espressione di una vita ben vissuta.
Non possiamo “fare” la felicità, ma in compenso possiamo fare pace: possiamo contribuire ad acquisire questa pace che ci renderà felici. La pace significa che diciamo di “sì” a noi stessi. In latino, la parola “pax” significa “parlare ai propri nemici”. Dobbiamo parlare ai nemici delle nostre anime e potremo diventare amici se saremo capaci di andare d’accordo con loro, allora non dovremo più temerli e saremo in pace anche con noi stessi.

Quali sono secondo lei le condizioni per la vera felicità interiore?

Appunto dire “sì” a sé stessi. Erasmo dice che la felicità è “essere colui che vuoi essere” e un’altra condizione è vivere con tutti i propri sensi intensamente e prendersi cura della propria vita. Quando tutto “fila liscio” sono felice, ma perché tutto “fili liscio” è richiesta la rinuncia al nostro ego narcisistico per rivolgerci verso gli altri.

Qual è secondo Lei l’ostacolo per eccellenza alla felicità?

È un’aspettativa di vita esagerata, l’illusione che tutto deve andare sempre al meglio, ma essere felici è accettare di essere un uomo come tutti gli altri. Le illusioni portano alla paura di non raggiungere il proprio ideale, di essere giudicati dagli altri, di non piacere a Dio, quindi trasciniamo il nostro ideale dietro di noi come un peso e siamo infelici. Un altro ostacolo mi sembra essere il consumo, come se tutto potesse essere comprato, anche la felicità…

Possiamo essere pienamente felici qui sulla terra?

No, mai del tutto, anche se sperimentiamo una grande felicità per un instante scopriamo in noi l’ardente desiderio di una felicità ancora maggiore. Infatti, solo Dio può realizzare il nostro desiderio di felicità e di “successo della vita”. Quando sperimentiamo Dio, ci sentiamo pienamente felici e come Santa Teresa d’Avila possiamo dire che “Dio solo basta”. Ma nel momento successivo sperimentiamo di nuovo l’allontanamento da Dio e l’insoddisfazione, non solo la mancata realizzazione dei nostri desideri di felicità, ma anche la delusione che questa realizzazione porta e che ci rimanda a Dio. Alla fine, scopriremo la vera felicità solo nell’incontro con la morte.

Quindi il fallimento è un’opportunità?

Può esserlo solo per chi accetta di essere spogliato di tutto. Allora, in questo abbandono, Dio potrà sembrargli come Colui che è disceso fino in fondo al suo nulla attraverso Suo Figlio Gesù Cristo. San Giovanni della Croce è convinto che l’immagine del Crocifisso può riempire solo chi è spoglio di tutto.
Chi fallisce passa spesso attraverso quella “morte dell’io” evocata dai mistici, senza doverla provocare. Con la dissoluzione dell’ego, perde la propria sicurezza, non ha più nulla ed è dal profondo di questo nulla che egli sperimenta Dio in un modo nuovo ed è quando non ha più nulla di stabile su cui costruire che Dio gli appare come il vero fondamento della sua vita. Non può più contare sulla sua vita professionale, la sua coppia, la sua vita monastica… Tutto gli viene portato via, si ritrova nudo ed è proprio questa nudità che gli svela Dio come il fuoco autentico che brucia il roveto.
Il Roveto ardente illustra bene l’esperienza spirituale del fallimento, la perdita di tutte le sicurezze umane che può portare a scoprire il mistero dell’amore divino. Mosè si concepisce come qualcuno che ha fallito, che si sente inutile, ed è nel momento in cui è un nulla che nasce la sua vocazione di grande profeta, però si è dovuto togliere i sandali per avvicinarsi al mistero di Dio…

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