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Tribunale spagnolo riconosce la responsabilità di militari per il massacro dei Gesuiti dell’UCA a El Salvador

EL SALVADOR

Johan Bergström-Allen-romerotrust.org.uk-(CC BY 2.0)

Alvaro Real - Jaime Septién - pubblicato il 14/09/20

Aleteia parla con chi ha indagato sull'assassinio di padre Ignacio Ellacuría e dei suoi compagni

L’11 settembre, i giudici della Audiencia Nacional de España hanno condannato l’ex colonnello salvadoregno Inocente Orlando Montano (77), all’epoca viceministro per la Sicurezza del suo Paese, a una pena di 133 anni, 4 mesi e 5 giorni di carcere per i fatti del 16 novembre 1989, quando dei soldati dell’Esercito salvadoregno hanno fatto irruzione nella residenza dei Gesuiti dell’Universidad de Centroamérica José Simón Cañas (UCA), a El Salvador, e hanno ucciso crudelmente chiunque si trovasse sul posto.

I cosiddetti “Martiri dell’UCA” sono stati i Gesuiti spagnoli Ignacio Ellacuría S. J., rettore; Ignacio Martín-Baró S. J., vicerettore accademico; Segundo Montes S. J., direttore dell’Istituto per i Diritti Umani dell’UCA; Juan Ramón Moreno S. J., direttore della biblioteca di Teologia; Amando López S. J., docente di Filosofia, e Joaquín López y López S. J., l’unico salvadoregno, fondatore dell’università e stretto collaboratore di Ellacuría.

Visto che l’ordine era di non lasciare testimoni, insieme a loro sono state uccise anche due donne, madre e figlia, che lavoravano in quella casa e che vi si erano rifugiate quella notte per sfuggire alla violenza della guerra civile. Si chiamavano Elba Ramos e Celina. Quest’ultima aveva appena 16 anni.

Montano ha negato varie volte di aver partecipato alla strage. Estradato nel 2017 dagli Stati Uniti, dove risiedeva, è comparso in sedia a rotelle davanti al tribunale spagnolo che gli ha inflitto 26 anni, 8 mesi e un giorno per ciascuno dei cinque Gesuiti spagnoli assassinati. Come in altre occasioni si è detto innocente, affermando di non avere nulla né contro i Gesuiti né contro la Chiesa cattolica, ma durante il processo, svoltosi nei mesi di giugno e luglio di quest’anno, vari testimoni hanno affermato che l’ex colonnello Montano considerava i Gesuiti dell’UCA dei “traditori”.

Secondo la sentenza della Audiencia Nacional de España, “è stato verifcato che i membri dell’alto comando delle forze armate salvadoregne, come nucleo decisionale collegiale, tra i cui membri c’era Montano, hanno deciso di giustiziare la persona che in modo più intenso ed efficace promuoveva, sviluppava e cercava di portare le due parti in conflitto [l’esercito salvadoregno e le forze ribelli del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN)] alla pace”, ovvero padre Ellacuría.

Il motivo degli omicidi è chiaro: “vedendo minacciata la loro condizione di potere e controllo nei progetti militare, politico, sociale ed economico del Paese”, gli alti comandi militari (tra cui Montano) hanno dato l’ordine di porre fine alla vita del rettore dell’UCA senza lasciare alcun testimone vivo. “È stato terrorismo di Stato”, ha sottolineato la sentenza.

“In definitiva, il ruolo della Chiesa come mediatrice per cercare di porre fine alla sanguinosa guerra civile le ha fatto guadagnare l’inimicizia dell’estrema destra, che temeva di essere privata nei negoziati dei suoi privilegi”.

Chi conosce bene tutta la storia è Pedro Armada Díez de Rivera, nominato dal provinciale del Centroamerica per raccogliere dei dati sulla strage. All’epoca viveva in Nicaragua, e pochi giorni dopo si è trasferito a El Salvador, dove ha lavorato con Martha Dogget, la persona nominata dal Lawyers Committe for Human Rights (al quale i Gesuiti nordamericani avevano affidato il caso) delle indagini. Entrambi hanno pubblicato un lungo rapporto sul caso. Aleteia lo ha interpellato.

Perché questo crimine, questo assassinio?

Perché nei luoghi in cui impera la menzogna dire la verità può costare la vita. Non è una novità. Succede.

Stiamo parlando di martiri morti perché avevano una voce profetica, perché denunciavano le atrocità, perché volevano una società migliore, perché lottavano per la libertà e la giustizia.

Tutto questo e molto altro. La voce di quei Gesuiti, e soprattutto quella di Ellacuría, che era il più visibile, suonava come la voce dei profeti quando si rivolgevano ai re di Israele e ai potenti dicendo “Questo dice il Signore”. Era molto forte perché dicevano la verità, e la gente lo sapeva.

Questi sei Gesuiti “odoravano come le pecore”, come direbbe Papa Francesco. Vivevano con i Salvadoregni, sentivano il loro dolore. Come sono stati i loro ultimi giorni? Avevano ricevuto delle minacce, sapevano cosa poteva succedere?

Sì, sì. Erano minacciati dagli anni Settanta. Dagli anni Settanta, dopo il Concilio e dopo la Congregazione Generale 32 della Compagnia di Gesù c’è stato un periodo in cui sono iniziate le persecuzioni, e non solo con insultati e minacce. Nel 1977 è stato ucciso il primo Gesuita, padre Rutilio Grande, che era salvadoregno e stava con i contadini nella parrocchia di Aguilares. Lo hanno ucciso a colpi di arma da fuoco mentre andava a celebrare la Messa.

Le persecuzioni venivano da lontano. C’erano stati vari attentati, bombe, sparatorie. L’UCA era stata colpita da alcune bombe poco prima. Dicevano scherzando che aveva l’aspetto più moderno d’America perché ogni pochi mesi glielo cambiavano. Con le donazioni che arrivavano si procedeva a un nuovo aspetto.

Denunciare queste atrocità non è fare politica, ma Vangelo…

Era puro Vangelo, ma il Vangelo ha conseguenze politiche inteso come conseguenze sulla vita pubblica. Quanto fatto di avere l’odore delle pecore, direi alcuni di più e altri meno. Ad esempio, Nacho Martín Baró non aveva solo il lavoro accademico, ma ogni fine settimana andava in un angolo sperduto chiamato “jayaque” con i contadini e la sua chitarra, e trascorreva lì il weekend. Era molto vicino al popolo.

Mi può parlare di Ignacio Ellacuría, che forse era il capo visibile di tutti? Com’era?

Ignacio Ellacuría era un uomo intelligente, con una mente prodigiosa, razionalmente tremendo e con una capacità di analisi e di giungere a conclusioni come non ho mai visto in vita mia. Era un genio. Aveva un carattere molto deciso e intraprendente. Ad esempio, diceva che non prendeva l’influenza perché aveva deciso di non prenderla e non la prendeva. Gli altri si ammalavano. Era un uomo spettacolare. Mi colpiva molto il fatto che deducesse cose invisibili a noi che vivevamo quelle situazioni. All’inizio degli anni Ottanta, quando è iniziata la guerra, è arrivato presto alla conclusione per la quale non poteva vincere nessuna delle due fazioni, e questo era impossibile da pensare in quel momento. Lo spiegava così: l’esercito ha la forza, ha il denaro degli Stati Uniti, ha il materiale ma non ha il sostegno popolare e viene corrotto col denaro. Ed è accaduto così. Il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN), invece, ha il sostegno popolare, ma non accadrà (era quello che mi colpiva di più) come in Nicaragua, dove il popolo è insorto. Per pensare a questo per El Salvador bisognava essere molto intelligenti e avere una grande capacità di analisi.

Dopo l’assassinio, la società di El Salvador è cambiata?

Gli omicidi dell’UCA hanno cambiato molte cose. La prima è stata il fatto di rompere il silenzio dell’impunità. Per la prima volta i militari hanno processato un membro delle forze armate. In secondo luogo, hanno fatto cambiare il modo di vedere le due fazioni, e ha favorito i negoziati di pace, perché hanno avuto una grande proiezione internazionale, soprattutto negli Stati Uniti, dove al Congresso si è messo in discussione l’aiuto militare a un esercito che uccideva civili indifesi, cosa che accadeva da 10 anni, ma che quella volta ha ottenuto una rilevanza pubblica e ha rappresentato l’inizio della fine.

Come l’ha vissuto lei?

Molto da vicino e rimanendo molto colpito. Era la conferma di quello che noi Gesuiti avevamo visto che poteva accadere a tutti noi, soprattutto in Centroamerica, dove la situazione era tremenda. Era la conseguenza logica, sapevi di stare al tuo posto, e questo provocava una pace enorme.

La guerra civile che ha insanguinato El Salvador dal 15 ottobre 1979 al 16 gennaio 1992 è costata la vita a 75.000 persone, soprattutto civili. Tra le atrocità di maggior spicco c’è stato l’assassinio, mentre celebrava la Messa, dell’arcivescovo di San Salvador, Sant’Óscar Arnulfo Romero.

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