Papa Francesco ha voluto affidare le Meditazioni per questo Venerdì Santo alla Cappellania del Carcere di Padova
Cambia il Venerdì Santo a causa della pandemia. La Via Crucis di Papa Francesco, a differenza delle precedenti, non si terrà al Colosseo bensì in una Piazza San Pietro che il Papa percorrerà da solo.
Le meditazioni della Via Crucis quest’anno sono proposte dalla cappellania della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova. Raccogliendo l’invito del pontefice, quattordici persone hanno meditato sulla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo rendendola attuale nelle loro esistenze.
Ecco chi le ha scritte
Tra loro, si legge nel testo edito dalla Libreria Editrice Vaticana, figurano cinque persone detenute, una famiglia vittima per un reato di omicidio, la figlia di un uomo condannato alla pena dell’ergastolo, un’educatrice del carcere, un magistrato di sorveglianza, la madre di una persona detenuta, una catechista, un frate volontario, un agente di Polizia Penitenziaria e un sacerdote accusato e poi assolto definitivamente dalla giustizia dopo otto anni di processo ordinario.
La voce rauca di chi abita nelle carceri
Accompagnare Cristo sulla Via della Croce, con la voce rauca della gente che abita il mondo delle carceri, è l’occasione per assistere al prodigioso duello tra la Vita e la Morte, scoprendo come i fili del bene si intreccino inevitabilmente con i fili del male.
Contemplare il Calvario da dietro le sbarre è credere che un’intera vita si possa giocare in pochi istanti, com’è accaduto al buon ladrone (..) Tutto è possibile a chi crede, perché anche nel buio delle carceri risuona l’annuncio pieno di speranza: «Nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37).
Ecco perché abbiamo deciso di raccontarvi le storie di conversione dei cinque detenuti che hanno scritto le meditazioni.
L’ergastolano: “Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona”
«Quando, rinchiuso in cella, rileggo le pagine della Passione di Cristo – racconta l’ergastolano, a cui è stata affidata la meditazione sulla Prima Stazione della Via Crucis – scoppio nel pianto: dopo ventinove anni di galera non ho ancora perduto la capacità di piangere, di vergognarmi della mia storia passata, del male compiuto. Mi sento Barabba, Pietro e Giuda in un’unica persona. Il passato è qualcosa di cui provo ribrezzo, pur sapendo che è la mia storia».
«Ho vissuto anni – prosegue – sottoposto al regime restrittivo del 41-bis e mio padre è morto ristretto nella stessa condizione. Tante volte, di notte, l’ho sentito piangere in cella. Lo faceva di nascosto ma io me ne accorgevo. Eravamo entrambi nel buio profondo. In quella non-vita, però, ho sempre cercato un qualcosa che fosse vita: è strano a dirsi, ma il carcere è stato la mia salvezza».
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L’omicida: “Non cerco sconti, dico solo “Cristo, ricordati di me”
Un altro detenuto, omicida, a cui è affidata la meditazione sulla Terza Stazione si sente «la versione moderna del ladrone che a Cristo implora: “Ricordati di me!”. Più che pentito, lo immagino come uno che è consapevole di essere sulla strada errata».
Come accaduto a lui, segnato da una infanzia, ostile, dalla ricerca spasmodica di «amici sinceri» che non ha mai trovato. «Soffrivo per la felicità degli altri, sentivo i bastoni tra le ruote, mi chiedevano solo sacrifici e regole da rispettare: mi sono sentito un estraneo per tutti e ho cercato, ad ogni costo, una mia rivalsa».
Da lì la violenza, il reato, il carcere, la derisione subita dagli altri detenuti. «Avevo condotto anche la mia famiglia nel burrone: per causa mia, hanno perso il loro cognome, l’onorabilità, sono divenuti soltanto la famiglia dell’assassino. Non cerco scusanti né sconti, espierò la mia pena fino all’ultimo giorno perché in carcere ho trovato gente che mi ha ridato la fiducia perduta».
L’abusatore: “In carcere i “cirenei” mi aiutano a portare la croce”
La Quinta Stazione è affidata ad una persona condannata per abusi sui minori: «Con il mio mestiere ho aiutato generazioni di bambini a camminare diritti con la schiena. Un giorno, poi, mi sono trovato a terra: il mio lavoro è diventato l’appiglio per una condanna infamante. Sono entrato in carcere: il carcere è entrato a casa mia. Da allora sono diventato un randagio per la città: ho perso il mio nome, mi chiamano con quello del reato di cui la giustizia mi accusa, non sono più io il padrone della mia vita».
Nella Quinta Stazione avviene l’incontro tra Gesù e Simone di Cirene, in cui questo detenuto rivede se stesso. «La croce che mi hanno caricato sulle spalle è pesante Dentro le carceri Simone di Cirene lo conoscono tutti: è il secondo nome dei volontari, di chi sale questo calvario per aiutare a portare una croce; è gente che rifiuta la legge del branco mettendosi in ascolto della coscienza«.
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Lo spacciatore: “Le mie due cadute, poi la voce di Gesù”
Nella Settima Stazione, quella in cui Gesù cade due volte con il peso della croce addosso, un detenuto, condannato per spaccio insieme alla famiglia, rammenta: «Sono caduto a terra due volte. La prima quando il male mi ha affascinato e io ho ceduto: spacciare droga, ai miei occhi, valeva più del lavoro di mio padre che si spaccava la schiena dieci ore al giorno. La seconda è stata quando, dopo aver rovinato la famiglia, ho cominciato a chiedermi: “Chi sono io perché Cristo muoia per me?”. Il grido di Gesù – “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”».
In quegli anni, ammette il detenuto, «non sapevo quello che facevo. Adesso che lo so, con l’aiuto di Dio, sto cercando di ricostruire la mia vita. Lo devo ai miei genitori: anni fa hanno messo all’asta le nostre cose più care perché non volevano che facessi vita di strada. Lo devo soprattutto a me: l’idea che il male continui a comandare la mia vita è insopportabile. È diventata questa la mia Via Crucis».
Il pluripregiudicato: “Dio e la mia “conversione” da nonno detenuto
Nella Nona Stazione Gesù cade per l’ultima volta, prima di essere crocifisso. La meditazione è affidata ad un detenuto che più ha conosciuto più volte il carcere. Una giovinezza difficile, i reati, le scuse. Poi durante l’ultima detenzione diventa nonno. «Un giorno, alla mia nipotina, non racconterò il male che ho commesso ma solamente il bene che ho trovato. Le parlerò di chi, quando ero a terra, mi ha portato la misericordia di Dio».
In carcere, conclude, «la vera disperazione è sentire che nulla della tua vita ha più un senso: è l’apice della sofferenza, ti senti il più solo di tutti i solitari al mondo. È vero che sono andato in mille pezzi, ma la cosa bella è che quei pezzi si possono ancora tutti ricomporre».
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