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Se torni al lavoro, ti faranno morire. Minacce ad una donna che “osa” fare il secondo figlio

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Paola Belletti - pubblicato il 09/10/19
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E’ successo in Lombardia. Un caso eclatante che purtroppo non è un’eccezione.Chiara ha denunciato le vessazioni e le ingiustizie subite sul posto di lavoro all’annuncio, per alcuni tutt’altro che lieto, della gravidanza di un secondo figlio. Siamo a Milano, non chissà dove.

All’annuncio della seconda gravidanza iniziano i guai

Della sua storia siamo venuti a conoscenza, ma è tutt’altro che un’eccezione. Della sua storia sappiamo qualcosa perché ha deciso di non mollare, almeno dal punti di vista legale, come tante donne invece fanno per più che ragionevoli valutazioni di opportunità (a volte anche per carità cristiana). Alcune scelgono o si sentono costrette a lasciar perdere per non avvelenarsi il fegato e cercano un’altra occupazione oppure vi rinunciano del tutto.

«Ti conviene accettare l’offerta. Se rientri al lavoro ti faranno morire». Il consulente aveva il tono amichevole, di chi parla nel tuo interesse. Ma Chiara non riusciva a vedere un amico in quell’emissario del suo datore di lavoro che, di fatto, stava accompagnando con minacce nemmeno tanto velate la sua proposta di buonuscita. Anche perché lei era sicura di non aver fatto nulla per meritare di essere allontanata: l’unica «colpa» era quella di essere diventata mamma per la seconda volta. (tratto da I racconti delle lettrici del  «Corriere», Milano Corriere)

La scena si svolge in una piccola azienda di Milano, dove Chiara lavora da circa 15 anni. La trama si è complicata proprio quando la donna, nel pieno dei suoi diritti e probabilmente anche nel pieno delle fatiche e delle fragilità della maternità (forse confidavano avrebbe ceduto proprio per questo?) ha deciso di respingere l’offerta iniqua dell’azienda.

Che cosa è cambiato tra il primo e secondo figlio? Di sicuro che due sono più impegnativi di uno soltanto, che due influenze magari in sequenza implicano più giorni di assenza della mamma dal lavoro. Ma anche gli assetti aziendali erano profondamente mutati. Continua il Corriere:

Con il primo figlio nessun problema, tutto era andato secondo le leggi. Ma la seconda gravidanza, circa un anno fa, arriva in un clima totalmente diverso. C’è stato un cambio generazionale al vertice dell’azienda familiare e il nuovo «capo» appare subito contrariato quando viene a sapere che Chiara è incinta.

Non se ne va con le buone, proviamo con le cattive: inizia il mobbing vero e proprio

Secondo lo stile tutto personale di leadership di questo nuovo capo (di solito i “nuovi” se sono troppo inesperti e arroganti tendono subito a fare qualcosa che segni  il cambio d’epoca, che faccia capire che “ora l’aria è cambiata” anche a danno dell’impresa stessa) la donna era decisamente in ritardo nel suo dovere di notificare la gravidanza perché era la stessa intenzione di concepire un figlio a dover essere resa nota, e forse chissà anche l’aumentata frequenza dei rapporti sessuali non protetti consumati con il compagno. Bisognerebbe avere anche altri testimoni, e riconoscere al datore di lavoro il beneficio del dubbio; ciò nondimeno la verosimiglianza di queste sortite purtroppo è comprovata (così come la consolante e consistente presenza di imprenditori saggi, virtuosi, rispettosi delle persone che lavorano per loro). Conosco direttamente, da vicinissimo, una persona che incinta del secondo figlio si è sentita invitare alla chiusura delle tube, seduta stante, operata direttamente dal capo.

«Dovevi dirmelo già quando tu e il tuo compagno avete deciso di avere un altro bambino» (Ibidem).

E siccome la signora, che pare sia una valida collaboratrice (era già capo reparto e quindi probabilmente depositaria di una esperienza preziosa per tutta l’azienda. Non sa quanto costa formare risorse umane il nuovo Sciur Parun?) non si convinceva a parole, ecco che lorsignori si sono visti costretti a passare ai fatti.

Da quel momento inizia una serie di contestazioni sul lavoro («Non era mai successo prima») e quando Chiara va in maternità viene a sapere dell’assunzione a tempo indeterminato di una persona chiamata per sostituirla. (la qual cosa è piuttosto rivelatrice delle intenzioni dei vertici aziendali, NdR).

Dopo il primo approccio del consulente dell’azienda che le propone dimissioni incentivate accompagnate da quella frase («Ti faranno morire»), al rientro non viene ricevuta dai suoi dirigenti ma da un altro consulente che le comunica la decisione di «riposizionarla». Svolgerà altri compiti mai affrontati prima.

Chiara si adatta, non si oppone e questo probabilmente ha spinto il datore di lavoro a scoprire ulteriormente le proprie carte, sporche.

(…) si sente dire, senza più giri di parole, che l’azienda non la vuole più e che se non avesse accettato l’incentivo subito sarebbe stata comunque licenziata al compimento di un anno del figlio. Anzi, meglio non presentarsi fino a quel giorno (Ibidem).

Le donne possono lavorare, ma le lavoratrici non possono diventare madri?

Sappiamo come funzionano i percorsi di carriera, in questi casi: da capo reparto ad addetta alle fotocopie, senza passar dal via. Il computer ridotto ad una specie di macchina da scrivere senza accesso alla posta elettronica, l’esclusione da tutte le riunioni, le sue competenze ridotte alla risposta veloce al citofono.

Si cambia il cancello elettrico? Non date il telecomando a Chiara. Che avrà fatto per entrare? Avrà scavalcato o atteso di intrufolarsi all’arrivo di altri dipendenti o di qualche fornitore? Chissà.

Gli stessi colleghi iniziano a farle osservazioni su presunti errori. Insomma, tutto e tutti congiurano per convincerla ad andarsene. Ma lei non vuole rinunciare al suo lavoro. E a quel punto si rivolge alla Cgil. «È tutto molto frustrante — ammette — ma io vado avanti perché so di avere ragione».

Il caso di Chiara non è ancora chiuso e migliaia di altri sono tuttora aperti.

Attualmente sono 5.695 le vertenze aperte dalla Cgil per recuperare «stipendi mai o non del tutto pagati dai datori di lavoro», 2.757 sono le violazioni contrattuali, di cui 1.623 licenziamenti illegittimi. E poi ci sono le dimissioni estorte. «Tutte persone lasciate a casa dalle aziende per presunti problemi economici mai esistiti». (Ib.)

Quindi siamo alle solite? Si gioca a maschi contro femmine? Datori di lavoro contro lavoratori? Mobbing incrociato di tutti contro tutti e là, sulla sfondo, l’isola di Utopia dove finalmente qualcuno sa come conciliare sul serio maternità e lavoro, impegno in ufficio e dedizione alla famiglia (anche per l’uomo)?

E’ il generation gap il vero dramma

Le aziende, le imprese sono una ricchezza e spesso sono avamposti di vera innovazione anche dal punto di vista delle relazioni. La cultura d’impresa però di tante realtà non è così benefica né particolarmente lungimirante. Scoraggiare in tutti i modi nuove nascite concorre al grande progetto privo di senso dell’autoestinzione di un popolo. Non c’è posto per aziende in crescita in un paese moribondo. Non occorre una capacità di vision particolarmente acuta, basta il buon senso.


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Forse che si possa (anzi si debba!) riequilibrare il costo delle sostituzioni di maternità soprattutto per le aziende più piccole? Sicuro. Forse che si possano utilizzare le possibilità già esistenti (fondi regionali ad esempio) e rendere più accessibile il part time senza trasformarlo in truffa con continui strappi alla regola o richieste di sovrapproduzione a metà costo?

La differenza la fanno le persone e anche i sistemi che decidono di sposare, alimentare o rivoluzionare.

Poco tempo fa abbiamo pubblicato, riprendendola dal blog di Costanza Miriano, una lettera di un imprenditore di successo che ha visto nel part time femminile, dedicato alle mamme, una possibilità concreta di sostenere tante famiglie e continuare a far funzionare la propria azienda.

In questo caso la protagonista della vicenda non parla di conciliazione auspicata ma forse perché era occupata a sopravvivere, non si sa. Quante donne devono lavorare per forza e non possono scegliere di dedicare almeno i primi preziosissimi anni di vita alla cura dei propri figli? Tantissime.

Non servono asili nido, lo riscoprivamo (di nuovo!) poco fa anche grazie ad un dossier dedicato alla caduta libera della natalità italiana: nelle regioni con maggiore capillarità di servizi per la primissima infanzia il numero dei nati non aumentava affatto.

Non serve nemmeno il congedo al nono mese di gravidanza, che può trasformarsi in un attimo in parto in sala riunioni. Servono mamme e figli vicini a loro; serve una flessibilità intelligente, servirebbe una mentalità per cui i figli non sono un fastidioso fardello ma significano vita, presente, futuro, speranza.



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Probabilmente spetta proprio agli sposi cristiani: osare fare figli lo stesso, anche quando le condizioni sono così ostili. Non siamo irresponsabili, abbiamo un’informazione in più. La Provvidenza esiste e fa il suo mestiere. Provvede.

Il tempo è una risorsa rigida. Ci costringe a decidere per chi spenderlo

Conciliare esigenze di efficienza produttiva e di rispetto per i tempi della maternità non è una impresa riservata a pochi eroi ma sarebbe una delle cosiddette best practice da diffondere e copiare in ogni settore, senza ritegno. Ad un patto però: i figli, le nuove nascite devono essere guardati per quello che sono, una ricchezza per tutti e non un benefit privato per il quale la società non deve spendere nulla.

La maternità, dalla gravidanza, al parto alla cura del bambino alla sua educazione, soprattutto nei primissimi anni, è faccenda che pertiene ancora alla donna, facciamocene una ragione e non è una sconfitta.

Non c’entra nulla col gender gap, né col divario dei sogni sempre lungo le barricate che vuole ostili e contrapposti uomo e donna. Le donne sanno già “sognare” di diventare giudici o astronaute, o capi di aziende (vedi nuova uscita della Judge Barbie, presentata come arma d’avanguardia proprio contro il dream gap dalla Mattel. Azienda per anni propugnatrice di un modello che riduceva la donna ad una bambola, troppo magra per giunta.  Il problema di aziende come la Mattel è la scarsissima originalità, la quasi inesistente capacità creativa e il rigido moralismo, altro che libertà e “puoi essere tutto ciò che desideri”).

Ma sanno benissimo, o almeno se lo ricordano ancora in tante, che il tempo non è dilatabile, è invece una risorsa rigida e preziosa.. E sanno che ci sono momenti in cui bisogna decidere qual è la priorità. Un bambino sa essere neonato una volta sola nella vita, in quella che sarà la sua unica vita e la sua unica occasione di formarsi come persona dentro una dimensione per la quale non conta quel che fai ma chi sei, anzi la cosa più meritevole di gratitudine è proprio che tu ci sia.

Per questo ricattare una mamma è facilissimo. Perché ama perdutamente il proprio bambino. Anche le meno “carine e coccolose”, “a bimbo in braccio” si ritrovano felice ostaggio dell’amore sconsiderato per il proprio figlio.

Vanno protette e sostenute le madri non usate, ingannate o messe all’angolo. “Vuoi avere uno stipendio e dare di che vivere a tuo figlio (anche se spesso potrai solo guardarlo dormire) o preferisci giocare a fare la mamma e la casalinga vivendo di bacche e piccola selvaggina, facilmente reperibile nei parchi urbani?”


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Non sono questi gli aut aut che vogliamo sentire, su. Dai.

Ps: carissima Chiara, coinvolta in sì triste vicenda, non so se sei abituata a considerare così le tue vicende personali ma io sento il dovere di suggerirtelo: perché non provi ad approfittare dell’ostilità che subisci, delle evidenti ingiustizie che ti infliggono come di un’occasione per rivedere le tue priorità? Magari cambi lavoro, magari te ne inventi uno per cui lavori da casa o metti in piedi un’impresina tutta tua che poi col tempo chissà coinvolgerà anche i tuoi figli. Sapere che dietro ogni fatto, anche i più brutti, può nascondersi una possibilità di bene maggiore per sé è più consolante di una causa sindacale vinta.