Ecco perché è importante utilizzare l’incenso durante la liturgia, e invocare il potente arcangelo
La parola “profumo” deriva letteralmente dal latino “per fumum”, ossia in origine indicava l’odore piacevole del fumo ottenuto bruciando sostanze varie: legni, semi, fiori secchi ecc. queste sostanze un tempo erano tanto richieste che alcune di esse viaggiavano dai propri paesi di origine fino a luoghi molto lontani, ed erano considerate preziose come l’oro e le gemme.
L’uso di bruciare aromi nei riti religiosi è antichissimo: si ritrova in India e in Persia, in Siria e in Egitto. Gli egiziani usavano elaborate misture sia per le cerimonie di adorazione a Ra (il dio del Sole) che per l’imbalsamazione delle mummie: in questa però era escluso l’incenso, riservato al culto divino, simbolo di intercessione e preghiera. Scorrendo i vari passi della Bibbia che citano gli aromi, è possibile leggere il progresso storico dal primitivo uso di sacrifici animali e all’uso poi dei turiboli nelle funzioni religiose.
L’incenso di qualità superiore è quello di colore bianco e il termine ebraico usato per indicarlo ha proprio questo significato: essere bianco, nell’antichità fu sempre considerato un aroma prezioso simbolo per eccellenza della preghiera, e fu usato per fare doni eccellenti. Fino all’omaggio dei Re Magi a Gesù Bambino, “aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra (Matteo 2,11). Una prima menzione di resine aromatiche si trova nella suggestiva scena che fa da sfondo alla vendita di Giuseppe da parte dei suoi fratelli: questi, dopo aver gettato Giuseppe da parte in una cisterna videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Galaad, con i cammelli carichi di aromi ( resine), di balsamo e di mirra (Genesi. 37,25).
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Nel Vangelo di Giovanni, il compito pietoso di accudire al corpo di Gesù dopo la sua morte, fu assolto da due uomini: Giuseppe d’Arimatea (che anche negli altri testi porta via il corpo di Gesù) e Nicodemo, il quale: “portò una mistura di mirra e di aloe di circa centro libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei” (Giovanni 19,39-40).
Prima di cominciare a parlare dei profumi e delle essenze, dovremmo soffermarci brevemente sull’importanza del significato dell’altare dei profumi, sia del tabernacolo che del tempio. L’altare dei profumi è un tipo della preghiera, è una raffigurazione che incita il credente alla preghiera. Esso parla di intercessione, cioè del mistero celeste di Cristo che intercede continuamente per noi, mediante la preghiera del ministero dei credenti, come è scritto: dalle coppe d’oro piene di profumi, che sono le preghiere dei santi (Apocalisse 5,8).
Il bruciare per creare la fumosità delle sostanze da l’idea di dover stimolare l’olfatto di Dio, che sarebbe sensibile (nella religiosità popolare anche non cristiana) a percepire quei fiochi fumi che provengono dall’anima, ed è proprio questa figura che ci fa capire come Dio è attento anche ai più piccoli aneliti come se fossero fumi, che a volte non vedi ma li percepisci; le apparenze possono ingannare la vista, il senso della distanza e delle forme, ma l’odorato invece è associato a doti di sottigliezza e di penetrazione, forse è proprio in virtù di questa sua caratteristica capace di cogliere molecole invisibili che l’olfatto si può definire un senso intimo, in grado di scorgere ciò che si cela al di là delle apparenze e di sentire il lezzo o il profumo più buono.
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Non a caso, il senso dell’olfatto è chiamato il senso del Messia, un’affermazione che va ricercata nel libro di Isaia ( 11,3): Respirerà come profumo il timore del Signore, non giudicherà dall’apparenza, non darà sentenze stando al sentito dire (…).
Chi sia stato una volta a Gerusalemme ricorderà certamente le botteghe lungo la strada che porta alla basilica del Santo Sepolcro fuori delle quali si vedono sacchi di grani di incenso. I grani sono colorati a seconda del particolare aroma dell’incenso e il venditore invita ad “assaggiarli”, in senso letterale, ossia morderli leggermente per avvertire questo aroma al gusto prima che all’olfatto. Si resta un po’ stupiti da questo invito, perché non conosciamo tanti tipi di incenso.
Nel rito latino, a differenza dei riti orientali dove compare sempre e con grande abbondanza, esso non trova un impiego diffuso e, in genere, anche quando lo si usa, ci si limita a pochi grani, tanto che spesso e purtroppo si “vede” salire il fumo, ma non sempre se ne avverte il profumo.
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Come tutti gli altri elementi simbolici legati al culto, anche l’incenso è legato a qualcosa di percepibile per rimandare ad altro; ma mentre per l’acqua o il pane o il vino questo significato “altro” è abbastanza immediato, per l’incenso, come avviene per l’olio, è necessario un piccolo lavoro interpretativo. L’incenso non è un elemento che entri normalmente nella nostra vita quotidiana e ha il carattere del superfluo. Si potrebbe vivere anche senza di esso, mentre non si può vivere senza pane o comunque senza cibo. Dice perciò, oggi e prima di tutto, il carattere del tutto gratuito dei nostri atti di culto. E’ un “di più” che significa il nostro modo di celebrare e di stare gratuitamente di fronte a Dio.
Veniamo ora all’incensazione fatta per l’intercessione di San Michele. Il sacerdote, all’inizio della Liturgia Eucarestia, messo l’incenso nel turibolo, lo benedice e poi incensa tutto l’altare, in onore del Signore.
L’incenso viene benedetto, nella Messa in forma extraordinaria o Messa di san Pio V, con la preghiera: “Per intercessionem beati Michaelis Archangeli, stantis a destri altaris incensi, et omniu electorum suorum, incensum istud dignetur Dominud benedicere, et in oderem suavitatis accipere“ (Per intercessione di S. Michele arcangelo, che sta alla destra dell’altare dell’incenso, e di tutti i suoi santi, il Signore voglia benedire questo incenso e accoglierlo come profumo a Lui gradito).
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Questa benedizione è più solenne della prima, nella quale si dice “Ab illo benedicaris, in cuius cremaberis” (Ti benedica Colui in onore del quale sarai bruciato). Qui sono invocati gli angeli perché il mistero dell’incenso non rappresenta altro che la preghiera dei santi presentata a Dio dagli angeli, come dice San Giovanni nell’Apocalisse (8,4): “Est ascendit fumus incenso rum de orationibus sanctorum de manu angeli coram Deo” (E dalla mano dell’Angelo il fumo degli aromi ascende con la preghiera dei santi davanti a Dio).
Ancor prima, come spiega il liturgista benedettino dom Prosper Guéranger, “siccome il pane e il vino che ha offerti hanno cessato dì appartenere all’ordine delle cose comuni e usuali , [il sacerdote] li profuma con l’incenso, come fa per Cristo stesso, rappresentato dall’altare”. Belle le parole che accompagnano l’incensazione prima in forma di triplice croce e poi di triplice cerchio sul pane e del calice: “Incensum istud a Te benedictum ascendat ad Te Domine et discenda super nod misericordia tua” (Ascenda a te, Signore, questo incenso da Te benedetto e discenda su di noi la tua misericordia).
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E’ tutto il senso della, liturgia, che ascende a gloria della presenza divina e discende per la nostra salvezza – in latino, salvare vuol dire conservare – affinché siamo completamente noi stessi e possiamo vivere in eterno con Dio. Il sacerdote si inchina “in spirito di umiltà e con animo contrito” affinché il sacrificio si compia alla presenza di Dio in modo da essere gradito; poi invoca lo Spirito sulle offerte. Il sacerdote, rendendo il turibolo al diacono, gli rivolge un augurio che fa ugualmente a sé medesimo, dicendo: “Accendat in nobis Dominus ignem sui amoris, et fiammam aeternae caritatis” (Il Signore accenda in noi il fuoco del suo amore e la fiamma dell’eterna carità).
Il diacono, ricevendo il turibolo, bacia la mano del sacerdote e poi la parte superiore delle catene, invertendo l’ordine delle azioni che aveva compiuto presentandoglielo. Tutti questi usi sono orientali e la liturgia cattolica li conserva perché sono dimostrazioni di rispetto e riverenza. Dunque, la Chiesa non ha escluso gli aromi dai suoi riti, anzi usa il balsamo per preparare il Crisma.
L’incensazione simboleggia il sacrificio perfetto dei santi doni del pane e del vino, cioè Gesù Cristo, a cui sono unite le nostre persone in sacrificio spirituale, emananti profumo soave che sale al cielo (cf. Gen 8,21; Ef 5,2); così sono le preghiere dei santi (Ap 5,8) e le virtù dei cristiani (2 Cor 2,15). Sarebbe molto opportuno che nelle nostre liturgie cattoliche si riprendesse non solo l’uso dell’incenso che in tantissime parrocchie è stato completamente abolito, addirittura non si usa neppure più alla fine del funerale per incensare la salma… ma anche al termine della Messa riprendere di nuovo la preghiera finale a san Michele Arcangelo che il papa Giovanni Paolo II ha invitato a fare pur non essendo purtroppo più obbligatoria come una volta.
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