Non c’era un solo banchetto di nozze, ma molti; lo sposo era tenuto a rifare l’intero guardaroba alla sposa … e altre sorprendenti tradizioni per nulla tetre e arretrate.E dire che di romanzi e di film storici ne ho letti e visti tanti.
Non uno – non uno – tra tutti quelli che ho all’attivo, che sia mai riuscito a rappresentare il matrimonio medievale così come realmente era. Nei telefilm ad ambientazione storica, a me piange il cuore tutte le volte che vedo entrare in chiesa l’emozionata sposa, raggiante nel suo vestito bianco, con lo sposo che l’aspetta all’altare al suono delle campane.
Sigh.
Il fatto gli è, signori e signori, che il matrimonio medievale era quanto di più lontano dalla nostra idea di “matrimonio moderno”. (Ammesso e non concesso che di “matrimonio moderno” si possa parlare: sarebbe forse più corretto dire “contemporaneo”. Come spiegavo qui, il nostro concetto di “matrimonio tradizionale” esiste solo nelle nostre teste).
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Certo è che, se ci spostiamo un po’ più in là nei secoli, il senso di disorientamento cresce. Se, disponendo di una macchina del tempo, venissimo invitati a un matrimonio medievale, ci troveremmo di fronte a un qualcosa di così bizzarro che probabilmente non capiremmo nemmeno a cosa stiamo assistendo.
E dunque, per la serie “demoliamo un po’ dei preconcetti che abbiamo sulla Storia”, ecco a voi cinque convinzioni (errate) sul matrimonio medievale che sicuramente avete (o avete avuto) anche voi… con relativa spiegazione sul perché sono sbagliate.
Il giorno del matrimonio è uno. Ti sposi un momento ben preciso.
Se le coppie medievali avessero avuto la consuetudine moderna di festeggiare gli anniversari di matrimonio, le sposine medievali sarebbero state le donne più fortunate della terra: sì, perché per loro “l’anniversario di matrimonio” non era uno solo. Ce ne potevano essere tre o quattro, se non anche di più.
Noi, oggigiorno, abbiamo la non irragionevole tendenza a presumere che il matrimonio sia una cosa che si formalizza in un momento solo. Nel Medioevo la gente era strana forte, e dunque aveva un matrimonio a tappe. Tappe tra le quali potevano trascorrere, se necessario, anche parecchi anni.
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Nel matrimonio-tipo, cioè quello tra famiglie ricche, le prime fasi erano affidate alle sapienti cure di un sensale, un professionista del mestiere che fungeva da “agenzia matrimoniale” mettendo in contatto le famiglie che avevano figli da maritare. Se le due famiglie riuscivano a trovare un compromesso soddisfacente, aveva luogo un incontro ufficiale tra i genitori dei futuri sposi, durante il quale l’accordo matrimoniale era suggellato da una stretta di mano. La si chiamava “impalmamento”, dai due palmi che si toccavano.
Ancor oggi nel linguaggio colloquiale si dice scherzosamente che “eh! T’hanno impalmato!”: il termine deriva proprio da questa antica cerimonia, che costituiva già di per sé un impegno formale ufficialmente assunto. Annullare un matrimonio dopo la cerimonia d’implamamento sarebbe stata un’onta grave, che avrebbe generato pesantissima inimicizia.
La cerimonia di impalmamento faceva sì che si parlasse già di “matrimonio”, anche se, da sola, non bastava a rendere legalmente valido il contratto. Per arrivare a una piena validità legale era necessario il secondo step del matrimonio: le “giure”, che potevano tenersi il giorno stesso dell’impalmamento, oppure – a discrezione delle famiglie – a qualche tempo di distanza.
In occasione delle giure, le due famiglie al gran completo (per intenderci: la reunion dei parenti che non vedevi da vent’anni ma che ti tocca invitare al pranzo sennò la zia si offende) si davano appuntamento al cospetto di un notaio, ove lo sposo e il padre della sposa davano pubblicamente il loro assenso alle nozze. Il notaio era testimone di questo assenso, che aveva dunque da quel momento piena ufficialità.
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La sposa non era presente.
Sola come una derelitta mentre tutta la famiglia era fuori a – ehm – festeggiare il suo proprio matrimonio, la sposa se ne stava in casa con qualche serva, ad aspettare che lo sposo venisse a visitarla. Quando finalmente gli invitati arrivavano – ehm – a casa della sposa, la sposa si univa al neo-marito (?) e partecipava con lui a un sontuoso banchetto (quello che noi definiremmo “il pranzo di nozze”).
Dopodiché, i novelli sposi si salutavano con cari saluti e tornavano a farsi i fatti loro per gli anni a venire.
Tecnicamente, i due erano già marito e moglie, anzi no: tecnicamente, erano sposo e sposa. E se guardiamo all’etimologia del termine (dal latino spondeo, “prometto”) ci rendiamo conto che il termine “sposi” ha una sfumatura di significato che vira di più sul versante di “promessi sposi”. Gli sposi medievali, insomma, sono coniugi a metà: sono già sposati, ma non sono ancora marito e moglie; hanno diritti e doveri coniugali, ma, ad esempio, non vivono ancora assieme.
Potevano passare mesi, talvolta anni, talvolta anche parecchi anni, prima che il matrimonio giungesse a completezza. Le ragioni per cui si aspettava tanto erano le più svariate, e solo raramente l’età troppo giovane era una motivazione. Nella maggior parte dei casi, lo sposo doveva allontanarsi dalla città per cercare lavoro, per prender parte a una guerra, perché costretto all’esilio dalla fazione politica avversa… e così via dicendo. Erano eventi frequenti e normali, così come era assolutamente normale che due sposi vivessero vite separate per un bel po’, dopo il loro matrimonio.
Quando finalmente i due sposini erano pronti “per fare sul serio”, si passava al matrimonio 2.0, che prendeva il via con il rito dell’anellamento: lui piglia la fede nuziale e la mette al dito della sposa.
Ai nostri giorni, è il momento clou di ogni matrimonio; nel Medioevo, era un momento dalla valenza simbolica, sì… ma niente di che. Il dì dell’inanellamento era una cerimonia privata, celebrata in casa e alla presenza di pochi cari. L’atto che rendeva ufficiale il fatto che “Tizio e Caia si sono sposati un po’ più di prima” era il sontuoso corteo nuziale che, qualche giorno dopo l’inanellamento, avrebbe condotto la moglie nella casa del marito. La donna, a cavallo, attraversava le vie della città con un corposo seguito di servitori; la sera, nelle vie antistanti la casa del marito, si sarebbe tenuto un rinfresco – all’aperto, dunque visibile a tutti, creato con il preciso scopo di rendere la notizia del matrimonio il più pubblica possibile.
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Grossomodo, era quello il D-Day che – diremmo noi, con mentalità moderna – sanciva l’inizio della vita coniugale vera e propria.
Anche se in realtà alla coppietta restava da fare un ultimo passo, prima di avviare una vera routine coniugale. Un passo che serve a smentire un altro grande preconcetto che molti di noi hanno riguardo al matrimonio tradizionale, e cioè:
Il matrimonio sanciva una alleanza tra famiglie, perché “quando ti sposi, sposi anche la famiglia del partner”
Non so chi sia il primo che s’è inventato questa vaccata, ma, no: nei ceti più alti, il matrimonio serviva senz’altro a sancire momentanee alleanze tra famiglie… ma queste alleanze non erano niente di definitivo e di intoccabile (come tristemente potrebbero confermare molte nobildonne andate in spose a re stranieri, i cui mariti, a distanza di pochi mesi, hanno dichiarato guerra a suoceri e cognati ammazzandoli malissimo sui campi di battaglia).
Nel complesso e instabile clima politico di un Medioevo europeo in cui tra i clan rivali esistevano voltafaccia tra i più impensabili, nessuno ha mai sognato di dire che, in un buon matrimonio, le due famiglie d’origine devono andare d’accordo per sempre e giocare a tombola al pranzo di Natale. Anzi: proprio per sottolineare il carattere effimero dell’alleanza tra famiglie venutasi a creare per via matrimoniale, esisteva nel Medioevo una ulteriore, immancabile, cerimonia cui gli sposi dovevano necessariamente sottoporsi. Questa cerimonia prendeva il nome di “ritornata”.
A ritornare era la moglie, che, entro una settimana dal matrimonio (cioè: dal corteo nuziale con trasloco nella casa del marito) faceva fisicamente ritorno presso la casa paterna.
Lo scopo era lanciare alla famiglia di lui un neanche tanto velato “occhio a cosa fai”: ti abbiamo dato nostra figlia, sì, ma noi siamo sempre qui presenti, pronti a riprenderci lei (e la sua dote) se le cose dovessero mettersi male o se lei dovesse rimaner vedova. Quindi, occhio.
Era proprio durante la ritornata che le due famiglie organizzavano il secondo Pranzone Di Nozze Con Tutti I Parenti (che erano già stati invitati, a suo tempo, alla stipula dell’accordo col notaio). E i parenti accorrevano in gran numero e vestiti in pompa magna, sennonché le due famiglie festeggiavano… aehm: ognuna per conto loro.
La moglie festeggiava a casa di suo padre con i suoi parenti, e dall’altra parte della città festeggiava il marito, a casa di suo padre, con i suoi parenti. Una soluzione così surreale che dovremmo cominciare a porci serie domande anche per quanto concerne un nostro altro grande pregiudizio, e cioè…
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3La famiglia medievale è una famiglia allargata
Ogni tanto su Internet li leggi pure, i saputelli che dicono “no, perché si parla tanto di famiglia tradizionale, ma per tutto il corso della Storia umana la famiglia è stata composta da nuclei familiari che vivevano nello stesso posto, dando origine a una famiglia allargata. La famiglia composta da marito, moglie e figli è una invenzione degli anni ‘50”.
Ehm, ma anche no.
Lasciamo perdere le consuetudini di vita di una certa Italia contadina di fine Ottocento, e lasciamo perdere il caso dei nobili che facevano vita di corte. Scopriremo che le famiglie mononucleari erano molto più frequenti di quanto tendiamo a immaginare, e che ciò accadeva soprattutto nelle città.
Un lavoratore salariato godeva di una indipendenza economica che non aveva nulla a che vedere con la ricchezza della famiglia d’origine: ergo, dopo il matrimonio andava a vivere con la moglie per i fatti suoi.
Agli artigiani, molto spesso il matrimonio consentiva di “metter su bottega”, cioè di ultimare l’apprendistato e di andare a lavorare in proprio, forte dell’aiuto in termini di manodopera che avrebbe potuto dargli la sua sposa. In questi casi, siamo addirittura di fronte al “modernissimo” modello di lui e lei che si sposano e mandano avanti il negozietto sotto casa, con la moglie che si divide tra lavoro e famiglia.
Quelli che erano “costretti” a vivere in una famiglia allargata composta da suoceri e cognati erano i contadini di media agiatezza, legati economicamente alla gestione di una “impresa agricola”, e i membri della media nobiltà.
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I primi, ovviamente, non potevano abbandonare la casa paterna perché essa coincideva con la fonte di reddito della famiglia: in questo caso, la sposa andava a vivere nella casa di lui con suoceri e cognati (più infrequente, ma non impossibile, era che lo sposo andasse a vivere e lavorare nella casa dei genitori di lei).
Nel caso della media nobiltà, la possibilità di farsi una famiglia autonoma dipendeva dal modo in cui i genitori intendevano suddividere il patrimonio. Se esso veniva ripartito equamente tra i figli maschi, generalmente i ragazzi uscivano di casa al matrimonio, formando una famiglia autonoma. Se invece si decideva di destinare l’intero patrimonio al primogenito, ecco che lui, fortunello, poteva sposarsi… ma a patto di tenersi in casa tutti gli altri fratelli (o, quantomeno, quelli che avevano rifiutato il chiostro).
Ma, come vedete, non era la norma.
In una significativa maggioranza dei casi, le coppie di sposi lasciavano i genitori e formavano una famiglia propria nella loro nuova abitazione, esattamente come si fa oggi.
4Per la famiglia di lei, il matrimonio era un gran peso: tante donne povere non si potevano sposare a causa della dote, che sbilanciava le trattative in modo ingiusto
A parte che, se posso essere impopolare, “la dote come la intendiamo noi moderni” a me sembra pure un istituto equo. Detto brutalmente, se devo pensare di accollarmi a uno sconosciuto e farmi mantenere da lui vita natural durante, l’idea di presentarmi con un tesoretto da destinare alle casse familiari “a fondo perso” non mi sembra nemmeno così scandalosa.
Ma io sono una donna all’antica, molto più di quanto lo fossero le dame medievali – e infatti la dote medievale non assomiglia un granché alla “dote come la intendiamo noi moderni”.
La dote era, sì, una somma di denaro (anche molto consistente) che passava dalla famiglia di lei alla famiglia di lui. Ed è vero che mettere assieme una dote dignitosa era un bel grattacapo per chi aveva numerose figlie femmine.
Ma non è che la famiglia di lui fosse messa tanto meglio. Per la serie “gentili sì, ma non cretini” i parenti della sposa si tutelavano. Innanzi tutto, la dote passava sì alle casse del marito, ma restava proprietà della moglie. Sembra una sfumatura, ma non lo è. Il marito aveva il diritto di amministrare la dote, ma non di spenderla, anche perché la moglie aveva il diritto di riprendersi l’intera somma in caso di vedovanza (che era un po’ come la nostra pensione di reversibilità, ma più consistente!).
Inoltre, cosa da non trascurare, la famiglia del marito era tenuta a farsi carico delle cerimonie di vestizione della novella sposa.
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“Vestizione” vuol dire che rifacevi il guardaroba alla pulzella: e glielo rifacevi per intero, dai calzini al pellicciotto! Abbandonati (anche fisicamente) gli abiti della sua giovinezza, che restavano nella casa paterna, la sposa veniva rivestita da capo a piedi dalla famiglia del marito, nel momento in cui iniziava la convivenza. Il gesto aveva un significato evidente sul piano simbolico (cioè, mostrare anche visivamente la netta cesura tra il prima e il dopo). Sul lato pratico, però, la consuetudine aveva lo scopo dichiarato di “andare in pari” con la dote femminile.
Il costo del guardaroba nuovo della sposa era grossomodo equivalente alla somma che lei aveva portato in dote. Inoltre, il guardaroba restava proprietà del marito (così come la dote restava proprietà della moglie). In ogni momento, il marito poteva decidere di riprendersi i gioielli (o addirittura gli abiti) che aveva regalato alla sua sposa – cosa che capitava non di rado, se la famiglia si trovava a fronteggiare ristrettezze economiche.
Insomma: sposarsi costava uno sproposito, sì. Ma il costo era alto per entrambi le parti in gioco.
5Ci si sposava in chiesa
Ehm.
Giunti alla fine di tutto questo ambaradan, io vi domando: vi risulta che io abbia mai nominato la chiesa, in questo articolo? Ho elencato almeno cinque fasi in cui prendeva forma questo “matrimonio a tappe”, ma in nessuna di queste fasi compare uno straccio di sacerdote.
Non è che io me ne sia dimenticata! È che, originariamente, non ci si sposava in chiesa.
Ai noi moderni può sembrare assurdo, ma, se ci pensate, tra i sette sacramenti, il matrimonio è l’unico a non essere stato inventato da Gesù. Ci si sposava già da mo’, nessuno s’era mai lamentato: chi oserebbe mai mettere in dubbio la validità del matrimonio “non cattolico” tra Maria e Giuseppe, o tra Abramo e Sara?
Per secoli, dunque, il matrimonio è stata una questione solo civile. Il che non vuol dire “laica”, badate bene: chi si sposava, nel Medioevo, aveva la consapevolezza di star compiendo un atto importante, per il quale si invocava la protezione di Dio e dei santi.
Non pensiate insomma delle nozze laiche, tipo “Dio non deve mettere il naso nel mio matrimonio, né men che meno accetto consigli di vita dal prete”.
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Però, dovete decisamente pensare a delle nozze civili. La consuetudine di sposarsi in chiesa alla presenza di un sacerdote (o, peggio ancora, nel bel mezzo di una Messa) non esisteva e sarebbe sembrata folle, agli uomini del Medioevo. Se io, nell’atto di firmare un contratto a tempo interderminato che stravolgerà per sempre la mia vita, pretendessi di firmarlo in chiesa alla presenza del vescovo e nel corso di una celebrazione eucaristica, riceverei dal mio datore di lavoro occhiate non più stranite di quelle che avrei ricevuto, nel Medioevo, proponendo al mio fidanzato “sì, maaa… che ne diresti di sposarci in chiesa?”.
Niente di personale contro la Chiesa, mi direbbero, ma perché mai bisognerebbe voler fare una cosa così strana? Esiste un notaio, vai dal notaio: no?
Raccontare nei dettagli il perché (e soprattutto il come) la Chiesa cominci gradualmente a interessarsi ai matrimoni, richiederebbe troppo tempo. I dettagli li rimando a un secondo momento, se vi aggrada.
Per intanto, basterà dire che: la Chiesa, sicuramente, si interessa fin da subito al matrimonio, nel senso che fin da subito inizia a dettare una sua propria morale coniugale (e sessuale). Innumerevoli uomini di fede elargiscono i loro consigli per una buona riuscita dell’unione e dettano le regole a cui tutti i cristiani devono conformarsi per essere sposi santi.
Quello che, per mille anni, non è mai interessato alla Chiesa è proprio il momento del matrimonio in sé. L’atto (ehm. Gli svariati atti) con cui lui e lei diventano marito e moglie. Quelli sono atti civili, roba da notai: lasciamo i giuristi compilino le scartoffie, e limitiamoci alla nostra funzione pastorale.
Gli sposi che lo desideravano (ed erano in molti a desiderarlo) potevano certamente invitare il prete a una delle molteplici cerimonie nuziali, invitandolo a dispensare la sua benedizione. Era una pratica frequente, anche incoraggiata, ma NON obbligatoria. Molto spesso, si decideva di invitare il sacerdote al banchetto pubblico che si teneva al termine del corteo nuziale, e cioè nel momento in cui gli sposi iniziavano la loro coabitazione. Il sacerdote visitava la casa dei due sposini (talvolta, accompagnandoli addirittura in camera da letto) e li benediceva, in una breve cerimonia che era una via di mezzo tra la pratica cristiana e il rito apotropaico, alla vigilia della “prima notte di nozze” attorno a cui si addensavano tanti timori (non nel senso che la gente era sessuofoba. C’era molta paura di scoprirsi sterili, e/o resi impotenti da riti di malocchio o influssi demoniaci).
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A onor del vero, poteva capitare che gli uomini di Chiesa comparissero in altre fasi del matrimonio. Ma, quando capitava, capitava per casualità.
Talora, le famiglie nobiliari decidevano di stipulare il contratto matrimoniale (cioè: le giure alla presenza del notaio) all’interno di un luogo sacro (non direttamente in chiesa, ma magari dentro al chiostro. Oppure in sacrestia). Non lo si faceva per una questione di devozione, ma per una questione di opportunità: in quel momento delicato e teso in cui, in teoria, tutto avrebbe ancora potuto esser ribaltato, poteva essere conveniente che le due famiglie (…cioè, le due fazioni) si incontrassero in un luogo pubblico e neutrale. Lo scopo era evitare spiacevoli sorprese in stile Red Wedding, per capirci.
Ma i consuoceri si incontravano in luogo sacro solo se tirava una brutta aria; altrimenti, si faceva tutto comodamente in casa. E inoltre: solo per coincidenza, poteva capitare che fosse un sacerdote a “ufficializzare” un matrimonio tra popolani. Capitava, talvolta, nei piccoli paesi, in cui il mestiere di sacerdote e quello di notaio erano esercitati dalla stessa persona. Ma era una coincidenza, non certo una prassi.
Fino all’anno Mille, la Chiesa si è completamente disinteressata degli aspetti burocratici del matrimonio. E bisogna aspettare il 1215 per trovare, negli atti del Concilio Lateranense, un vero e proprio obbligo a che i cristiani si sposino in chiesa
“Eh ma allora come si faceva col sesso prematrimoniale, consumato al di fuori del sacro vincolo del matrimonio?”.
Mi pare già di sentire la vostra domanda, e il sorriso nasce spontaneo.
Scoprire come funzionava il sesso medievale è ancor più sorprendente dello scoprire come funzionava un matrimonio… quindi, avendo già scritto fin troppo, rimando la dissertazione a un successivo articolo. E, credetemi: rimarrete stupefatti!
E, come nota a margine, qualche titolo per chi volesse approfondire la questione:
Storia del Matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Daniela Lombardi, edizioni Il Mulino
Storia del matrimonio, Michela De Giorgio e Christiane Klapisch-Zuber, Edizioni Laterza
Una sola carne in un solo Spirito: teologia del matrimonio, José Granados, Edizioni Cantagalli
Due in una carne. Chiesa e sessualità nella Storia, Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia, Edizioni Laterza