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Brasile: i bambini sfilano in passerella per essere adottati

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Annalisa Teggi - pubblicato il 03/06/19
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Famiglie adottive in platea a guardare chi scegliere, sul palco bambini e ragazzi truccati e vestiti per l’occasione. È accaduto in un centro commerciale del Mato Grosso. Truccati e vestiti bene, diciotto bambini e ragazzi hanno sfilato di fronte a una platea di duecento potenziali genitori. È accaduto nello stato brasiliano del Mato Grosso la scorsa settimana, e non si tratta della prima edizione dell’evento, che ha lo scopo formale di valorizzare le adozioni mostrando al meglio le creature in attesa di genitori. Alcune fonti parlano di un’età compresa tra i 12 e 17anni, altre – ed è ancora più allarmante – di bambini tra i 4 e i 17 anni (The Brazilian Report). La scenografia? Un centro commerciale. Gli sponsor della manifestazione sono, neanche a dirlo, delle firme della moda che hanno fornito il materiale per vestire i piccoli modelli. L’ultimo elemento sconcertante è che il tutto non è stato pensato da qualche mente bizzara, ma ha avuto l’autorizzazione del giudice per i Diritti dell’infanzia e l’appoggio della Commissione statale “Infanzia e Gioventù” del Mato Grosso.


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L’emergenza adottiva in Brasile è serissima: circa 9500 infanti sono senza famiglia. Proprio perciò il progetto «Adozione in passerella» non è passato inosservato e ne sono nate polemiche, ma è meglio dire condanne unanimi; tanto da costringere gli organizzatori a giustificarsi: le intenzioni della manifestazione sarebbero state fraintese, i bambini non sono stati in alcun modo costretti. Da ciò nascono alcune domande: cosa si doveva comprendere? e soprattutto chi doveva comprendere? quei bimbi cosa hanno compreso di sé?

L’occhio vuole la sua parte

Ho provato a immaginarmi la scena, non ci vuole molto. Tante volte girando a vuoto nel supermercato ci si imbatte in questi spettacolini in cui si fa mostra di qualcosa: fari luminosi alla buona, un palco senza troppe pretese, musica di tendenza e assembramento di persone. Capita allora di togliere l’occhio dalla vetrina per spostarlo dove c’è questo fermento umano, il più delle volte è il tronista di turno che rilascia autografi o il vincitore di qualche edizione addietro di uno dei molti talent show. Anche nel caso di persone adulte che consapevolmente hanno scelto di «commercializzarsi» mi viene un po’ di tristezza … come se tutto fosse così candidamente spiattellato: siamo dentro un centro commerciale, tu cosa compri? e tu cosa vendi?

Che si sia potuto rendere protagonisti di una simile messa in scena dei bambini, e dei bambini che hanno un vissuto di affettività ferita (visto che mancano loro i genitori), diventa aberrante. Perché, nonostante tutti i trucchi verbali con cui il progetto «Adozione in passerella» è stato presentato, l’evidenza amara è proprio una faccenda di trucco: se devo vestire e abbellire una persona per renderla appetibile, allora sto vendendo un prodotto. Vorrei però spostare lo sguardo; cioé: se è già chiaro constatare l’abbaglio dannoso che produce questa iniziativa, cosa genera nella percezione ancora fragile e incerta di questi bambini coinvolti?



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Non li ha resi protagonisti, non li ha valorizzati. Li ha camuffati, primo; e da ciò la testa e il cuore ricavano un messaggio preciso: «non posso essere accettato come sono, devo presentarmi meglio». Li ha esposti, secondo; e da ciò deriva la deduzione che l’adozione sarebbe una scelta al pari di quella che si fa in un negozio. La parola accoglienza, che è il seme fecondo dell’adozione, sparisce e trascina con sé nell’ombra dell’oblio l’altro pilastro: l’essere. Il fulcro dell’adozione non sono i genitori, che per molteplici ragioni danno la sua disponibilità all’accoglienza, e neppure il bambino preso come monade assoluta. L’adozione ha come fulcro la famiglia, cioè questa ipotesi: «Tu sei» è il quid prezioso di ciascuno, e bisogna sentirselo dire da qualcuno; se manca chi biologicamente lo può dire, altri in loro vece si possono assumere questa bellissima responsabilità. I genitori adottivi non sono quelli che «vogliono un bambino», sono quelli che hanno risposto sì alla domanda «Siete disposti ad accogliere con amore i figli che Dio vorrà donarvi?» … non è una sottigliezza linguistica, è mettere al centro il soggetto vero in fatto di vita. E non è l’uomo, ma Dio.

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Brian Santos | Youtube

Un veleno s’insinua quando alla nuda accoglienza dell’essere si cominciano ad aggiungere specificazioni: «tu sei simpatico», allora di adotto; «tu sei grazioso», allora ti adotto; «tu sei come immaginavo mia figlia», allora ti addotto. L’immagine della sfilata, così tanto emblematica della nostra quotidiana smania di apparenza, nasce da una nostra patologica incapacità di stare in silenzio e ammirati dell’essere. Il danno più grave lo si infligge ai piccoli: se devo aggiungere qualcosa (un sorriso, un vestito, una protesi al seno, un filtro su Instagram) per essere amato, che ne è di me? Che ne è di quelle parti di me che sono inguardabili?

Schiavitù

Onestamente, non mi ha stupito che un evento simile sia potuto essere pensato e realizzato. Mi ferisce, mi fa anche molto arrabbiare; ma non mi stupisce. Ci sono casi, come questo, in cui occorre dare all’occhio cristiano quel che è dell’occhio cristiano: una visione unitaria sull’umano.



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Quando urliamo contro l’aborto, quando fermamente condanniamo l’utero in affitto, quando non taciamo sui rischi gravi delle varie pillole del giorno dopo, quando mettiamo parola nell’ipotesi di adozioni alle coppie omosessuali … stiamo facendo la stessa cosa. Altri possono vedere in questi temi altrettante battaglie, ma la parola cristiana (cioè lo sguardo a cui ci educa la parola e la vita di Gesù) unisce ciò che l’occhio puramente umano separa: la dignità della persona è il suo essere figlia di Dio. Solo liberando ogni anima dal possesso di ogni altra creatura mortale rendo giustizia al suo valore infinito. Se l’uomo è figlio dell’uomo, allora è uno schiavo. Se è figlio di Dio, è intoccabile e libero.

Per quasi tutti è stato spontaneo associare le immagini della sfilata brasiliana a scopo adottivo alla vendita degli schiavi dei tempi antichi. E ci si straccia le vesti come se, improvvisamente, un sole accecante avesse mostrato cadaveri dilaniati e rimasti semivisibili nella penombra. Certo che ci si deve stracciare le vesti, ma non caschiamo dalle nuvole: da molto tempo l’uomo sta rendendo schiave le creature più piccole, perché è a sua volta schiavo di una visione egocentrica di sé. Se il figlio non lo voglio, lo abortisco. Se il feto ha delle malattie, lo abortisco. Passando al versante opposto: se voglio un figlio ma non posso averlo, lo fabbrico a tutti i costi. Naturalmente, se lo voglio è ovvio che lo voglio in un certo modo. Che anche l’adozione possa diventare una sottocategoria aberrante del supermercato è solo un tassello in più del mosaico evidente che abbiamo sotto mano: trattare la vita come un prodotto. Possiamo farlo finché ci raccontiamo la bugia che essa sia in mano nostra.


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Negli USA, dove il panorama delle possibilità creative e degenerate è immensamente più vasto, esiste il private re-homing. Lo ha portato alla mia attenzione la mia collega Paola; a cui qui chiedo – nero su bianco – di approfondire la cosa con il suo estro umanissimo e sagace. In sintesi è un «riciclo» … perché bisogna dare il nome alle cose per quel che sono: una famiglia adotta un bambino, ma ne resta delusa; quindi privatamente lo cede a qualcun altro a cui, magari, le cose andranno meglio. Sì, è allucinante perché non è affatto diverso dal «avevo preso questi sandali ma per il mio piede sono inadatti, guarda se a te stanno bene».

Dettaglio raggelante: il nome di questa pratica – «private rehoming» (cambiamento di domicilio privato) – è direttamente ispirato al commercio di animali da compagnia. Sulle reti sociali e altri siti, gruppi di genitori e aspiranti genitori si iscrivono, si trasmettono informazioni, organizzano lo scambio di bambini. Qualcuno spiega la sua “offerta” con frasi del tipo «non sopportiamo questo bambino di 11 anni del Guatemala». (da Blitz quotidiano)

CZAS Z DZIECKIEM

Stock-Studio | Shutterstock

Se la legge interviene, riporta il bambino alla famiglia di origine che lo voleva così generosamente riciclare ad altri. Figuriamoci. Un vuoto normativo consentirebbe ancora che tale pratica possa attuarsi. Un vuoto ben più clamoroso sta spalancandosi. E lo diciamo tutte le volte in cui il centro del discorso non è la vita della persona, ma i discorsi che altri uomini vogliono fare sulla vita di una certa persona (per quanto piccola o malata o fragile sia).


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Forse nel caso dei poveri bimbi brasiliani ridotti a modelli in cerca di adozione era evidente a tutti che sfilare in passerella era trattarli da oggetti in vendita (ma non è la medesima trama per l’utero in affitto?). Era evidente che è ingiusto aggiungere cipria e magliette colorate per dare valore al cuore di un essere umano (ma non c’è la stessa pretesa quando si sceglie un figlio perfetto in provetta, o lo si scarta perché non è tale?). Altrettanto evidente in questo triste fatto di cronaca è stato notare che il centro del discorso sull’adozione non possono essere i gusti di mamma e papà: ma non è quel che diciamo anche per l’aborto? Se siamo noiosi è perché ci preme sempre e solo una cosa: che la dignità della persona non sia oggetto di manipolazioni.