Stefania Garassini, docente dell’Università Cattolica di Milano, ci mette in guardia dai pericoli nascosti dentro lo schermo, ma rilancia una proposta positiva a noi genitori: vale la pena esplorare e non solo vietare.Ha tre figli, si occupa di comunicazione e ha scritto un libro intitolato Smartphone, 10 ragioni per non regalarlo alla Prima Comunione (e magari neanche alla Cresima). L’ho letto con l’idea che avrei alzato di molto le mie barriere difensive e arrabbiate verso la tecnologia. Ho trovato invece una proposta umana molto più interessante: noi adulti siamo la prima e unica generazione che ha il compito educativo entusiasmante di creare sentieri virtuosi nell’educazione web dei più giovani. C’è molto da vietare, certo; ma c’è anche molto da esplorare. Allora, ho voluto farle qualche domanda.
Cara Stefania grazie di aver accettato l’invito di Aleteia For Her ad approfondire un tema molto attuale e variegato. Dunque: cos’è uno smartphone? Questa domanda, apparentemente scontata, nasce dalla mia difficoltà di genitore di mettere bene a fuoco cosa do in mano a mio figlio: uno strumento per comunicare con me e i suoi amici? Un videogioco ininterrotto? Una tv portatile?
È sicuramente la chiave di accesso a un mondo infinito e dal volto poco chiaro; ed è anche un mondo adulto, cioè pensato da adulti e rivolto soprattutto ad adulti, un pubblico tendenzialmente in grado di gestire le proprie emozioni. L’aspetto emotivo è una componente forte nella comunicazione, lo smartphone spalanca un mondo in cui si sollecitano emozioni che non sono pensate per proteggere i più piccoli. È difficile da gestire persino per noi grandi questa sollecitazione, pensiamo a certe dinamiche che si creano nei gruppi Whatsapp. Questo è il primo elemento su cui meditare, quando cominciamo a pensare di regalare uno smartphone a un bambino o a un ragazzo: non stiamo offrendo solo uno strumento per comunicare, ma un regno di contenuti e relazioni. Dobbiamo tenere presente che occorre orientarli dentro quel regno.
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Si sente dire che la tecnologia è neutra, e che il bene o male dipende da come la si usa. È vero che il nostro modo di usare la tecnologia influisce, però non è vero che lo strumento è neutro. Lo smartphone favorisce alcuni tipi di attività: ad esempio quella di potersi riprendere in video in ogni momento. Rispetto a ciò, è necessario acquisire la competenza di saper decidere quando non è assolutamente il caso di riprendersi; altrettanto indispensabile è rendersi conto del motivo per cui condividiamo un nostro contenuto (sappiamo riconoscere quando accade solo per metterci in mostra?). Quando parliamo di «uso critico» dello smartphone intendiamo la consapevolezza di sapere che lo strumento facilita certe attività, ma non sempre è il caso di farle. Instagram incoraggia la condivisione continua della propria vita, magari anche di contenuti utili; però stimola la voglia di mettersi in mostra e di paragonarsi sulla base dei like. L’idea di un confronto continuo è emotivamente molto pesante. Infatti proprio Instagram in Canada ha intenzione di fare la sperimentazione di una versione in cui non sia possibile vedere il numero dei like sotto i profili; questo suggerisce che i social networks stanno interrogandosi sul condizionamento dei cuoricini o dei pollici in su. La tecnologia non è affatto neutra: ci cambia, cambia il modo in cui noi ci relazioniamo con la realtà e le altre persone; non potremo mai dire che la doppia spunta blu di Whatsapp non ha cambiato le relazioni.
A proposito di immagini simboliche forti. È vero, come tu scrivi nel libro, che non esistono i nativi digitali? Esistono di sicuro cuori e cervelli pieni di attese e desideri a cui lo smartphone risponde con quali proposte/trappole?
È vero che i nostri figli hanno una familiarità superficiale più spiccata con le tecnologie, perché, si può dire, sono nati con lo smartphone in mano. Vale a dire: hanno una capacità immediata di gestire lo strumento e di intuire le potenzialità. Però quando si parla di «nativi digitali» intendiamo riferirci alla metafora per cui un madrelingua parla una lingua meglio di chi non l’ha appresa fin dalla nascita: allo stesso modo, i giovani avrebbero competenze a cui noi adulti non possiamo arrivare in nessun modo.
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Non è così. Infatti, se cominciamo a ragionare su un uso più complesso della tecnologia, la prospettiva cambia. Pensiamo al modo di fare una ricerca sul web: studi hanno dimostrato che c’è una difficoltà da parte dei più giovani a usare più motori di ricerca; poi, riguardo alla valutazione critica delle fonti e alla loro affidabilità c’è una difficoltà ancora più grande. L’università di Stanford ha condotto una ricerca che evidenzia alcune criticità: i più giovani fanno fatica a distinguere un’informazione da una pubblicità, se s’imbattono in una foto molto bella sono portati a dare per scontato che la notizia a cui si riferisce sia vera. Non si nasce capaci di elaborare strategie per valutare ciò in cui ci si imbatte. A questo si aggiunge il livello emotivo da discernere e soppesare, conferma ulteriore del bisogno di una guida per questi ragazzi. Il mito dei «nativi digitali» rende difficile un approccio educativo, perché sembra che abbiamo in casa dei guru con cui non è possibile interagire perché sanno tutto meglio di noi. Il buon senso deve ricordarci che i nostri figli non sono guru della tecnologia, hanno bisogno di chi li aiuti a usare meglio lo strumento che maneggiano così facilmente.
Un altro mito da sfatare: il genitore s’illude che lo smartphone sia un guinzaglio elettronico, ma è più simile a una slot machine. In che senso?
Il genitore compra lo smartphone con l’idea rassicurante di poter contattare suo figlio in qualsiasi momento; poi l’esperienza comune ci testimonia che quando abbiamo bisogno di parlare con lui, non sempre risponde. Ci sono studi statunitensi che dimostrano quale sia il vero guinzaglio a cui leghiamo i nostri figli: sullo schermo di uno smartphone non c’è nulla di causale. Per fare un esempio: non è casuale che il colore delle notifiche sia rosso, il colore dell’emergenza. Scatta il pensiero: «È rosso, devo far qualcosa». Poi apro il messaggio e mi accorgo che è l’ennesimo augurio in un gruppo. L’idea base dietro uno smartphone è che tutto ciò che c’è sullo schermo ci deve tenere attaccati, perché più siamo attaccati più usiamo servizi, più ci arriva pubblicità. Si chiama «economia dell’attenzione»: il bene prezioso in questa economia è la nostra attenzione. Più tempo trascorriamo online più informazioni condividiamo su di noi e queste alimentano una pubblicità sempre più cucita sulla nostra persona.
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Possiamo paragonarla alla dinamica per cui entrando al supermercato non compro solo quello per cui sono andata, ma molto altro. E così, quando sblocco il telefono non mi metto a fare solo ciò che volevo fare – magari me lo dimentico pure! – perché mi imbatto in altre tremila cose. Tristan Harris, dopo aver lavorato molti anni a Google, ha fatto presente il pericolo di questa deriva e l’ha paragonata all’immagine della slot machine: si aziona una barra e si attende la discesa delle monetine, ma non sappiamo quante ne arriveranno e neanche quando; sbloccando il telefono andiamo a cercare se ci sono commenti o like e se li troviamo ci gratificano, perciò vogliamo ripetere questa esperienza, ma non sappiamo quando arriverà. Il desiderio di essere gratificati non è sbagliato, il problema è cercarlo in continuazione e investire tanto tempo in questa attività.
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A proposito di tempo. Lo smartphone riempie tutti quelli che un tempo erano tempi morti (attese piccole nel quotidiano). Stiamo perdendo il senso benefico dell’attesa? In molti propongono una nuova ri-educazione alla noia per i più giovani (attività che presuppongono la presenza di un vuoto buono da vivere, fatto di un riposo che osserva, ascolta, guarda “a tempo perso”). Tu sei d’accordo?
Sono d’accordo sull’idea di abituare all’attesa, cioè a momenti in cui devo inventarmi io qualcosa da fare e non c’è qualcuno che me lo propone. Un aneddoto personale: mi figlia aveva perso il telefono, è rimasta senza per due settimane e ha constatato che, nonostante qualche problemino logistico, era riuscita a finire di leggere un libro. Questo tipo di esperienza passa dalla limitazione dell’uso degli strumenti tecnologici ed è un aspetto fondamentale. Dobbiamo essere noi gli sponsor della vita online dei nostri figli.
Un tasto dolente, in merito all’affiancamento dei genitori: si leggono notizie di suicidi, ricoveri, gravi danni provocati da un uso fuori controllo dei videogiochi (es Fortnite), ultimamente ha fatto scandalo il caso della serie TV intitolata Tredici. Sono solo casi rari o è il momento che noi genitori ci diamo una seria svegliata sulla protezione dei nostri figli?
Il tema che riguarda le serie televisive è un continente enorme. Normalmente la fruizione di questi contenuti è: da soli, in camera. Tredici è una serie piuttosto impegnativa dal punto di vista emotivo, perché tratta del suicidio di una ragazza e di tutte le persone che hanno contribuito al dramma. In Nuova Zelanda, dove c’è un problema di emergenza suicidi, è stata emessa una direttiva in base a cui la serie non poteva essere vista da soli se si aveva meno di 18 anni e non si poteva vedere più di una puntata alla volta (per non fare binge watching, cioè un’abbuffata incontrollata di puntate). La storia alla base del telefilm è scritta molto bene, ma è cupa. Lasciare che un ragazzo veda da solo questa serie è rischioso, perché ciò che vediamo ci cambia. Attualmente, quasi tutte le serie esplorano zone emotivamente pesanti, manca la proposta di una speranza. Se proprio i nostri ragazzi ci tengono a vedere qualcosa del genere bisogna parlarne assieme, vietare senza remore dove occorre, e guardare insieme a loro almeno qualche puntata. È un impegno tosto, lo capisco. Ma vale la pena porsi questo obiettivo perché è in gioco la formazione della coscienza morale.
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Questo attaccamento allo schermo non è anche un limite alla creatività personale? La fantasia e l’immaginazione sono a rischio estinzione?
Il discorso è complesso; se parliamo di un uso troppo precoce, sì. Perché lo smartphone ha il potere di essere un elemento protagonista, quando entra in scena il bambino si concentra solo su quello. Le linee guida dell’OMS dicono che non bisogna mai proporre uno schermo a un bimbo al di sotto dei 2 anni e per età al di sopra di questa soglia bisogna offrirlo con molta gradualità e per periodi limitati. Occorre evitare che la fantasia del bambino venga canalizzata e risucchiata dallo schermo. D’altra parte, invito anche a considerare che vale la pena conoscere le proposte del mondo digitale: ci sono dei videogiochi che hanno un’inventiva notevole, parlo di giochi per adolescenti. Il mondo digitale ha una grande dose di creatività, quindi spetta a noi saper valorizzare gli elementi che sollecitano positivamente l’immaginazione.
Mi ha colpito molto questo tuo rilancio in positivo, leggendo il libro. Tu definisci affascinante l’avventura educativa che spetta a noi adulti: siamo la prima e unica generazione chiamata a tracciare un percorso nell’educazione dei figli al web. Ci offri qualche spunto da cui cominciare, un incentivo per osare qualcosa di più sensato delle solite sfuriate domestiche?
Noi adulti siamo i primi a dover capire che il tempo davanti allo schermo non è tutto uguale. Dobbiamo stimolare, su di noi, e sui figli, un atteggiamento esplorativo e non passivo: piuttosto che aprire lo schermo e subire quello che mi viene proposto, posso essere io quello che si mette a cercare cosa mi interessa. Possiamo usare questi strumenti per nutrire le nostre passioni, ad esempio mia figlia è riuscita a imparare a suonare l’ukulele attraverso Youtube. Ecco, allora, quando i nostri figli vengono a dirci che hanno trovato qualcosa di interessante sul web, dovremmo cercare di reprimere il primo istinto negativo per sforzarci di capire cosa è per loro interessante. Poi, a partire da questa mossa di incontro, si possono proporre alternative; magari confrontandosi con altri genitori. Non escludiamo che gli stimoli che vengono dai figli possano essere anche occasioni in cui noi adulti scopriamo qualcosa di bello. Il genitore non deve essere solo gendarme e censore, può essere a sua volta uno che ha voglia di scoprire.
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Questo è un respiro umano davvero interessante. Per concludere, ci aiuti a fissare qualche semplice paletto per orientare il nostro compito di genitori?
Il primo è l’importanza dell’esempio di noi adulti nell’uso di questi strumenti. È fondamentale capire che siamo noi i primi a doverci autodisciplinare, in questo diventa più interessante il rapporto educativo, perché siamo tutti dalla stessa parte, noi e i nostri figli. Se imponiamo una regola, siamo noi i primi a doverla rispettare. Ad esempio, se stabiliamo che gli smartphone la notte devono stare fuori dalle stanze da letto, magari in un luogo ben preciso della casa, il nostro telefono è il primo che si deve trovare lì. Alcune – poche regole – sono necessarie, meglio se negoziate in casa. Ma su due punti sarebbe proprio meglio non cedere. Il primo, come abbiamo accennato, è quello di non tenere il telefono nella stanza da letto la notte, il secondo è non usarlo a tavola. Un terzo consiglio è quello di fare in modo che gli schermi (tv, pc, playstation) siano collocati in spazi comuni della casa e non nelle camere dei ragazzi. È vero che molti contenuti i ragazzi li guardano sullo smartphone, quindi in solitudine, ma molti altri no. Ed è molto meglio che si trovino inseriti in un contesto più ampio quando sono davanti a uno schermo. In questo modo è più difficile che il mondo virtuale diventi totalizzante, una dimensione parallela in cui restare completamente immersi.