È un neologismo di cui potevamo fare a meno, ma che ci ritrae perfettamente: ad ogni problema messo sul tavolo, replichiamo ponendone uno a nostro giudizio più grave. Quando il nostro vocabolario guadagna una nuova parola che finisce in -ismo non c’è da festeggiare. E sarei pronta a giurare che ne guadagneremo sempre più, per lo stesso motivo per cui quando crollò la torre di Babele si moltiplicarono le lingue … e nessuno riuscì più a comprendere chi gli stava accanto. Non fu una punizione divina, quanto il dono di uno svelamento: se sei concentrato nella mira egoistica di crescere sempre più in alto, sei già solo e indifferente alla parola altrui.
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In questa nostra frenetica e rumorosa Babele è nata una parola in più: benaltrismo. Ci descrive perfettamente. L’ismo è astratto e noi siamo astratti; il bene ci preoccupa ed è oggetto del nostro tiro alla fune egoistico con gli altri (se è tuo, non può essere mio; se a te manca, a me manca di più). Partiamo dalla definizione, in ogni caso: l’atteggiamento di chi elude un problema sostenendo che ce ne sono altri, più gravi, da affrontare.
Ne hanno tradotto il senso in un video di successo i The Jackal, gli “sciacalli” napoletani star del web. Dopo sole 18 ore di presenza su Facebook il breve filmato ha raggiunto quasi un milione di visualizzazioni. È efficace, pieno della lucidità che solo l’ironia porta in dote.
Va in onda una messa in scena che conosciamo bene: in uno studio di registrazione si sta girando uno spot sull’accoglienza dei migranti, ma il frontman davanti alla telecamera s’interrompe leggendo perplessità sui volti dei suoi assistenti. Gli suggeriscono che non si può fare uno spot sui migranti, senza parlare degli italiani che vivono in situazione di indigenza, sarebbe ingiusto. Da ciò nasce una reazione a catena: non si può allora escludere dal discorso il gay discriminato, la donna oggetto di violenza, il disabile, fino allo sterminio delle balene e al buco nell’ozono.
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Alla perplessità del frontman sull’incongruenza di raccogliere temi così disparati, viene replicato un ritornello generico “uniscili!”: non preoccuparti del senso, l’importante è che ci metti dentro tutto e tutti. Ne nasce uno spot finale insensato e tragicomico:
Non è facile stare su un barcone per giorni perché hai perso la casa in seguito ad un terribile terremoto ed essere un senzatetto donna gay su una sedia a rotelle che non ha mai visto Star Wars.
La filippica va avanti in modo ancora più assurdo e la potete gustare nell’originale, che è esilarante nella sua amarezza.
Uniscili
Lo tocco con mano spesso questo benaltrismo (che tuttora il correttore automatico del mio pc non riconosce e mi segna in rosso …): scrivendo di umanità quotidianamente e condividendo le notizie sulle piattaforme web mi scontro con il tritacarne dei commenti pubblici. E non contesto la presenza di contestatori, ma l’abitudine – anche mia, ci mancherebbe – di sviare un discorso per portare al centro dell’attenzione un punto di vista diverso giudicato più importante. Scrivere un pezzo sulle difficoltà dei padri separati suscita mormorio tra le mamme separate che a loro volta sono in difficoltà (e viceversa!). Parlare della fatica delle famiglie numerose genera risentimento nei single, la cui condizione è altrettanto complessa (e viceversa!).
Il benaltrismo è proprio il veleno di questo doverci mettere anche “viceversa”; l’ossessione di dover salvare capra e cavoli. Un qualsiasi discorso umano, pronunciato da un politico, da un filosofo, da un genio dotato di empatia, da chiunque non potrà mai salvare capra e cavoli. Non può salvare, in generale; però è la barca su cui tutti vogliamo salire, stiparci, esserci … per affondare insieme.
Se si parla di un qualsiasi problema, vogliamo che si sappia che anche noi ne siamo parte, perché abbiamo un qualche altro problema. Questo c’interessa ancora di più del bisogno di avere aiuto per risolvere le cose. A chiedere aiuto facciamo fatica, ma esigiamo di essere in prima linea sul transatlantico delle cose che vanno male. Essere a bordo di una lamentela universale, alla deriva.
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Mi ricorda quel gioco che c’è ancora – credo – nella settimana enigmistica e che mio padre mi lasciava fare da bambina: unire i puntini numerati. Saltava sempre fuori una figura sensata, animale o pianta o edificio. Noi oggi invece ci troviamo di fronte a puntini che vogliono unirsi senza far parte di una figura. Appiccicati e insensati. Una Babele di obiezioni a testa alta in cerca di visibilità, non cuori a capo chino in attesa di risposte.
L’interlocutore è proprio la visibilità, il Dio onnipotente celebrato anche dagli inconsapevoli. Non sappiamo più pregare, ci basta un posto al sole sul carro della mormorazione.
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Capitano, mio capitano
Mi fa pensare a una scena del film Una settimana da Dio, quando il bravissimo Jim Carrey se la dorme mentre gli arrivano alle orecchie tutte le preghiere delle persone. Cerca di far finta di non sentire quelle voci che insistentemente si rivolgono a Dio, di cui lui fa le veci.
Il nostro comportamento abituale è simile e rovesciato; Dio c’è ed è un ascoltatore fedele e indefesso, ma noi lo abbiamo escluso e lanciamo i nostri urli ad altri, chiediamo ospitalità nel posto sbagliato e ne ricaviamo smarrimento. Avendo perso l’Origine a cui chiedere conto del nostro male e del bisogno di essere curati, salvati, aiutati, ci accontentiamo di potere fare monumenti giganti ai problemi.
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Chesterton disse due cose apparentemente distinte, ma intimamente unite. Prima: gli uomini litigano perché non sanno discutere. Seconda: in mancanza di un ideale ci si accontenta di un pandemonio di rimedi. Il litigio e il rimedio sono spie di una resa. Suggeriscono la scena di un campo di battaglia in cui i soldati sono feriti e in confusione perché il capo in comando è stato ucciso; sbandano e fanno cose a caso, lontani mille miglia dalla salvezza.
In mancanza di un sistema di riferimento, si litiga anziché discutere; in mancanza di un sistema di riferimento, ci si affanna a tirar fuori rimedi d’urgenza perché non si capisce la vera natura del problema. Il benaltrismo è un nuovo modo di litigare e di rimediare maldestramente al nostro bisogno di essere ascoltati. Ci si accavalla senza logica e rispetto perché la ferita aperta degenera in egoismo (“se tu ti lamenti di questo, cosa dovrei dire io che …”).
Per fortuna la settimana di prova di Jim Carrey è finita da un pezzo ed era solo un film. Il Capo in comando è sempre stato saldo al timone; possiamo sovraffollarlo di preghiere, certi che alla nostra confusione Lui replicherà trovando il bandolo della matassa che ci sfugge. Il benaltrismo è solo l’ultima invenzione umana, deforme e rattrappita, che abbiamo dovuto tirar fuori da quando abbiamo licenziato la Provvidenza.
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Il Creatore è l’unica maglia necessaria per tenere insieme la collana dell’umanità, nell’unicità di ogni componente e nella relazione virtuosa tra tutti: ogni perla (cioè persona) è una storia ferita che cammina a fianco di altre storie ferite. Perché litigare per aver un posto scomodo sulla zattera dei lamentosi, quando possiamo stare ciascuno al suo posto e indicarci a vicenda il capitano che può portarci salvi (tutti insieme e ciascuno) al porto? Perché urlare per aver 130 caratteri di visibilità angosciata su Twitter, quando possiamo avere un poema di misericordia inginocchiati in silenzio davanti ad un altare?
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