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Solo i maschietti all’altare, giovane prete nell’occhio del ciclone: succede a Cumiana

MINISTRANCI
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 14/12/18
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Chiara Sandrucci ha portato a rilevanza nazionale sul Corriere un episodio di vita parrocchiale del Torinese. Un prete giovane e zelante (forse un tantino intemperante) ha cercato di imporre alla comunità l’esclusione delle bambine dal servizio dei ministranti; per tutta risposta alcuni fedeli lo hanno deferito alla Consigliera di Parità Gabriella Boeri, la quale ha convocato il sacerdote e gli ha fatto dono di un libro sulla parità di genere (sic!). Ingerenze a parte, la questione non ha un vero profilo teologico, mentre va valutata nel contesto di una storia disciplinare e istituzionale che si articola nell’ultimo mezzo millennio. Ci sono ragioni di attendere come risolutivo l’intervento di mons. Cesare Nosiglia.

S’è sollevato un gran polverone, in particolare dopo l’articolo di Chiara Sandrucci sul Corriere di Torino, riguardo al caso della parrocchia di Cumiana dove il giovane parroco, don Carlo Pizzocaro, avrebbe operato una “discriminazione di genere” riservando in via esclusiva il servizio all’altare ai soli bambini di sesso maschile.

Estrapolata dal contesto particolare e proiettata sul grande schermo dei media nazionali, la questione è istantaneamente diventata espressione di una lotta tra cliché: lo spettro del clericalismo misogino da una parte e quello del femminismo ideologico dall’altra. E naturalmente tutte le parti in causa si dichiareranno insoddisfatte di questa descrizione, evidentemente troppo tranchant e grossolana: essa è tuttavia l’unica possibile nel ridotto spazio di un trafiletto di giornale.



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Chiara Sandrucci aggiunge peraltro che quello di Cumiana non è l’unico caso in cui si siano viste siffatte “discriminazioni”, elencando per esempio quello di Bardonecchia, dove don Franco Tonda dà queste ragioni:

Solo i bambini indossano la tunica e portano le ampolline, ma le bambine possono tenere il telo della comunione. Dipende anche dal periodo dell’anno, il Venerdì santo tutti possono indossare le stesse tuniche rosse. […] A mio parere non è corretto paragonare le regole sulla parità di genere del mondo “civile” a quelle del mondo ecclesiastico.

La bufera, tuttavia, infuria tutta sul giovane don Pizzocaro, le cui ultime dichiarazioni nell’articolo sembrano tenere il punto: «La nostra società è tutta concentrata sull’uguaglianza. Vanno invece valorizzate le differenze».

Questo è quanto stava sui giornali il 12 dicembre, e che dunque riferisce movimenti aggiornati all’11. Ieri pomeriggio, invece, don Pizzocaro si è trincerato in un last statement dato a mezzo di un post su Facebook:

A leggerlo così, da fuori, si ha immediatamente l’impressione di un intervento “rieducativo”, o perlomeno di commissariamento. Impressione che viene confermata dall’intervista che la già ricordata Chiara Sandrucci aveva fatto contestualmente anche a Gabriella Boeri, la Consigliera di parità della Città metropolitana sabauda, contattata dai genitori delle bambine della parrocchia: «un caso che […] – assicura la giornalista – [la Consigliera] sa già come affrontare». Come? A domanda risponde:

La mia competenza resta nell’ambito del lavoro, ma cercherò di incontrarlo e in quell’occasione potrei consegnargli una copia del libro “A scuola di parità” di Giulia Maria Cavaletto, Consigliera di parità della Regione Piemonte, scritto per aiutare a formare le giovani generazioni alla parità di genere.

Insomma, pare che don Pizzocaro, in quanto giovane, meriti un particolare “investimento pedagogico” – lo sottolineano l’ultima domanda e l’ultima risposta dell’intervista:

[D] Una presa di posizione che arriva da un prete giovane…

[R] È questo che trovo più strano, il fatto che sia proprio un parroco trentenne a non volere che le bambine servano messa. Dalle giovani generazioni ci si attende un cambiamento e quindi una maggiore apertura alla parità di genere che, ricordiamo, è il più potente antidoto alla violenza contro le donne.

Un’affermazione – quest’ultima – su cui si potrebbe largamente dibattere, visto che a partire dai rilievi demoscopici internazionali non si riesce a trarre un teorema che indichi la proporzionalità diretta tra l’enfatizzazione della differenza sessuale (ciò che le femministe chiamano “stereotipo di genere”) e la violenza di genere (che certamente ogni persona civile vuole scongiurare). Non senza pagare lo scotto di pesanti contraddizioni, per cui qualcuno giunge a dire: nei Paesi dove maggiore è l’attenzione non sono più numerosi i casi di violenza, ma unicamente le denunce. Cosa senza dubbio possibile, ma se si dubita tanto radicalmente di dati e fonti è davvero difficile approdare a qualcosa che non sia il mero riflesso di ideologie preconcette.

Ma lasciamo volentieri alla “Consigliera di parità” l’incombenza di trovare la quadra sul “paradosso norvegese”, sui suoi presupposti antropologici e sui relativi corollari sociali: quanto possiamo osservare – noi che restiamo nel nostro campo – è che troviamo difficile non scorgere nell’azione di Boeri una pesante ingerenza. Proviamo a immaginare la scena a parti rovesciate: un prete anziano che si ripromette di incontrare una giovane consigliera e di darle un libro col quale intenderebbe spiegarle come ci si aspetta che lei faccia il suo lavoro. In una giornata di notizie scarse una storia così potrebbe finire sulle prime pagine nazionali, per strillare all’ingerenza (e al sessismo).

Fortunatamente (per la Consigliera), l’arcivescovo di Torino non è uomo incline allo scontro, ma piuttosto alla mediazione: oltre a essere persona di esperienza ecclesiastica in generale, mons. Cesare Nosiglia è pure lungamente versato nelle questioni inerenti alla catechesi e all’educazione. Insomma dovrebbe essere l’uomo giusto al momento opportuno, e probabilmente saprà avviare la situazione a una risoluzione pacifica e indolore per tutti (o quasi).

Tre parole sul giovane prete

Per spostarci dal piano del metodo a quello del merito, magari avvicinandoci alla comunità di Santa Maria della Motta, potremmo considerare tre commenti che altrettante donne hanno scritto a mo’ di commento sotto un post del prete piemontese. Tutte e tre sono composte e costruttive, ma la prima è molto critica:

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La seconda è di una donna impegnata nella formazione dei sacerdoti:
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La terza è di una ragazza che può offrire affettuosa testimonianza del precedente impegno pastorale di don Pizzocaro:
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Un documento “normativo” sulla materia

Questo tanto per restituire alla figura del giovane prete una profondità che – appiattita sulle sole dichiarazioni rilasciate al Corriere – risulterebbe un sagomato. Ciò detto, ricordiamo adesso i pronunciamenti ecclesiastici in cui sta la questione: sul n. 38 di Notitiæ compariva la traduzione italiana di un rescritto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti. Era la risposta a un vescovo che aveva chiesto delucidazioni proprio in merito alla pratica di ammettere donne e bambine al servizio dell’altare.

Eccellenza,
Con riferimento alla nostra recente corrispondenza, questa Congregazione ha deciso di procedere ad un rinnovato studio delle questioni concernenti l’eventuale ammissione di fanciulle, donne adulte e religiose, accanto ai fanciulli, come ministranti nella liturgia.

Nell’ambito del presente esame, questo dicastero, ha consultato il Pontificio Consiglio per i testi legislativi che ha risposto con una lettera in data 23 luglio 2001. La risposta del pontificio consiglio è stata di aiuto, perché ha riaffermato che le domande sollevate da questa congregazione – inclusa quella se una legislazione particolare possa obbligare i singoli sacerdoti, quando celebrano la santa messa, a ricorrere al servizio delle donne all’altare – non riguardano l’interpretazione della legge, ma, piuttosto, concernono la corretta applicazione della medesima normativa. La risposta del succitato pontificio consiglio, pertanto, conferma l’interpretazione di questo dicastero, secondo la quale la questione rientra nell’ambito delle proprie competenze, delineate dalla Costituzione apostolica Pastor bonus, § 62. Alla luce di tale autorevole risposta, questo dicastero, avendo risolto alcune questioni rimaste ancora insolute, ha potuto concludere il proprio studio e, ora, desidera fare le seguenti osservazioni.

Come risulta chiaramente dalla Responsio ad propositum  dubium circa il can. 230 § 2 del Codice di diritto canonico, data dal Pontifìcio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi e dalle direttive di questa congregazione, volute dal santo padre per provvedere all’ordinata attuazione del disposto del can. 230 § 2 e della sua interpretazione autentica (cf. Lettera circolare ai presidenti delle Conferenze episcopali, Prot. n. 2482/93, del 15 marzo 1994, in Notitiæ 30 [1994] 333-335), il vescovo diocesano, in quanto moderatore della vita liturgica della diocesi affidata alla sua cura pastorale, ha l’autorità di consentire il servizio delle donne all’altare, nell’ambito del territorio affidato alla sua guida. Tale libertà, inoltre, non può essere condizionata da richieste favorevoli ad una certa uniformità fra la sua diocesi e le altre, in quanto ciò determinerebbe, logicamente, l’eliminazione della necessaria libertà di azione del singolo vescovo diocesano. Piuttosto, dopo aver ascoltato il parere della conferenza episcopale, il vescovo deve basare il suo prudente giudizio su ciò che ritiene accordarsi maggiormente con le necessità pastorali locali, al fine di conseguire un ordinato sviluppo della vita liturgica nella diocesi affidata al suo governo pastorale. Nel fare ciò, il Vescovo terrà in considerazione, fra l’altro, la sensibilità dei fedeli, le ragioni che motiverebbero un tale permesso, i differenti contesti liturgici e le assemblee che si riuniscono per la santa messa (cf. Lettera circolare ai presidenti delle conferenze episcopali, 15 marzo 1994, n. 1).

In ossequio alle citate istruzioni della Santa Sede, in nessun caso tale autorizzazione può escludere gli uomini, o, in particolare, i fanciulli, dal servizio all’altare, e nemmeno può obbligare che i sacerdoti della diocesi ricorrano a ministranti di sesso femminile, in quanto «sarà sempre molto appropriato seguire la nobile tradizione di avere dei fanciulli che servono all’altare» (Lettera circolare ai presidenti delle conferenze episcopali, 15 marzo 1994, n. 2). Naturalmente, rimane sempre l’obbligo di promuovere gruppi di fanciulli ministranti, non da ultimo, per il ben noto aiuto che, da tempo immemorabile, tali iniziative hanno assicurato nell’incoraggiamento di future vocazioni sacerdotali (cf. ibid.).

Per quanto concerne l’eventuale vantaggio pastorale offerto alla situazione locale dalla presenza di donne ministranti all’altare, sembra utile ricordare che i fedeli non ordinati non hanno alcun diritto di svolgere tale servizio. Piuttosto, è dai sacri pastori che essi possono esservi ammessi (cf. Lettera circolare ai presidenti delle conferenze episcopali, 15 marzo 1994, n. 4; cf. anche can. 228 § 1; Istruzione interdicasteriale 14, Ecclesiæ de mysterio, 15 agosto 1997, n. 4. in Notitiæ 34 [1998] 9-42). Pertanto, qualora vostra eccellenza ritenesse opportuno autorizzare il servizio di donne all’altare, rimarrebbe importante spiegare chiaramente ai fedeli la natura di tale innovazione, affinché non si abbia alcuna confusione e con ciò si danneggi lo sviluppo di vocazioni al sacerdozio.

Avendo cosi confermato e ulteriormente chiarito i contenuti della sua precedente risposta a vostra eccellenza, questo dicastero – che considera normativa la presente lettera – desidera assicurarla della sua gratitudine per avere avuto l’occasione di approfondire ulteriormente la presente questione.

Con ogni migliore augurio e distinto ossequio, mi confermo, sinceramente suo in Cristo,

Jorge A. card. Medina Estévez, prefetto

mons. Mario Marini, sotto-segretario

Appunti e note

La lettera è trasparente, ma dato che nel guazzabuglio polemico e frettoloso in cui ci troviamo immersi un documento del genere corre il rischio di essere frainteso e/o di diventare più oscuro di ciò che intende spiegare, offro di seguito alcuni punti di sintesi per una migliore comprensione:

  • Il dicastero ritiene normativo il proprio rescritto al vescovo, proprio in ragione dell’ampia consultazione che lo ha preceduto e fondato.
  • Va da sé (difatti non c’è scritto, ma non bisogna dimenticarlo) che in nessun modo il contenuto del rescritto può intendersi irreformabile: si tratta sempre e comunque di diritto ecclesiastico positivo.
  • Quindi la materia è di piena discrezionalità dell’Ordinario del Luogo (99 volte su 100 un vescovo diocesano), e per questo la sua decisione non può essere determinata né dal giudizio dei confratelli riuniti in conferenza episcopale né da singoli vescovi (figurarsi dai “Consiglieri alla parità” che regalano libri…).
  • Un vescovo prudente, tuttavia, dovrà ascoltare il parere della propria conferenza episcopale, prima di decidere.
  • Un vescovo prudente, inoltre, farà bene a tener conto anche della sensibilità dei fedeli, avendo cura estrema di spiegare loro le cose in modo da non essere frainteso.
  • Nessun fedele laico ha diritto a prendere parte ad alcuna azione nell’ambito del presbiterio (non a caso quella zona prende il nome dai soli fedeli che per diritto vi transitano, i chierici); questi ultimi, tuttavia, hanno facoltà di introdurre i primi ad alcune particolari mansioni.
  • Storicamente, e in particolare negli ultimi cinque secoli, tale delega è diventata abituale, nel contesto parrocchiale, in riferimento a bambini il cui senso religioso veniva coltivato con particolare zelo, incoraggiando in molti la scelta di entrare in seminario.
  • Il che non significa:
    • che sia teologicamente impossibile ammettere donne e/o bambine al servizio dell’altare;
    • che l’ammissione delle stesse al servizio liturgico possa essere analogamente intesa come prodromica all’accesso all’Ordine sacro (riguardo al quale nessun fedele ha diritto: chiunque avverta di sentire una chiamata non può imporla alla Chiesa contro le sue regole).

Questi ultimi punti, in particolare, delimitano il campo delle considerazioni relative alla prassi pastorale e al suo senso teologico: ho precisato (anche se nella lettera non se ne parla) che i chierichetti esistono da qualche secolo proprio per ricordare che c’è stato un tempo (lungo quasi tre volte il restante) in cui la loro presenza non è stata attestata.


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Storia e teologia

Ciò significa non che siano una “categoria” inutile, ma che – come tutte le categorie – abbia visto la luce in un dato momento storico in cui la loro presenza è stata perfino più che opportuna: a suo tempo il Concilio di Trento affrontò finalmente il problema, allora secolare, della formazione sacerdotale, che versava in uno stato pietoso. Nacquero allora i seminari, che santi vescovi come Carlo a Milano sospinsero alacremente. E per una prima selezione, in epoche e contesti generalmente privi di scuole, si usava la categoria dei “piccoli chierici”, che poi ancora in tenerissima età venivano mandati nelle migliori scuole che il clero gestiva e contestualmente avviati all’iter ecclesiastico.


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È difficile giudicare ciò che accade a Cumiana se manca questo contesto: ora che le scuole (da più di un secolo) ci sono e per tutti; ora che tra gli stessi seminaristi pochissimi vengono dal seminario minore (istituzione in crisi per tutt’un’altra serie di motivi)… è pensabile che i “chierichetti” continuino a esistere così come erano stati concepiti? Per questo alcune chiese che tra loro avevano raggiunto l’unanimità a riguardo – ho avuto esperienza in particolare di quelle in Germania – hanno istituito sotto il pontificato di Giovanni Paolo II il corpo dei “Ministranti” a mo’ di un movimento giovanile ufficiale: di tanto in tanto arrivano in visita dal Papa pullman e pullman di “Ministranten” dalle diocesi tedesche: maschi e femmine dagli 8 ai 18 anni. E si fanno tante cose buone e belle, come non mancano scandali e abusi – se ne trovano in ogni movimento ecclesiale, in ogni ordine religioso, accanto a rigorismo e lassismo, avidità e pauperismo, autoritarismo e sudditanza… – è la vita.


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L’istituzione dei ministranti può essere intesa come un’utile metamorfosi storica dei chierichetti, mediante cui ai bambini viene impartita una particolare formazione catechistica e liturgica (diciamo anche mistagogica) che potrà essere lo zoccolo duro di una formazione adulta perseguita per altre vie – e nessuno vieta che qualcuno possa scegliere di abbracciare una vita di speciale consacrazione, o che qualche ragazzo decida di entrare in seminario.

Chiaro che non esiste fondamento teologico alcuno per stabilire che le bambine, in quanto persone di sesso femminile, non possano essere ammesse al servizio dell’altare a pari titolo dei loro coetanei maschi, ma non mi pare che don Pizzocaro abbia inteso questo, anzi la stessa redazione del Corriere riporta in catenaccio le sue parole: «Non essendo un dogma, in questo campo c’è libertà di scelta». Che sia sempre ispirata a scienza e buonsenso, mai all’arbitrio.


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Per la prossima volta…

Perfetto, allora cos’è andato storto a Cumiana? Secondo me la lettera della Congregazione per il Culto Divino offre due spunti di analisi: poiché il prete è, gerarchicamente, il primo collaboratore del Vescovo, il suo senso pastorale lo dovrebbe portare a conformarsi alla prassi raccomandata allo stesso Vescovo. Quindi è ragionevole presumere che in questo caso al giovane prete abbiano giocato un brutto tiro una scarsa comunicazione previa con il Vescovo (del resto la diocesi di Torino è grande…) e una senz’altro perfettibile valutazione de «la sensibilità dei fedeli». Nessuno deve essere forzato mai oltre i propri limiti: dal Vangelo alle raccomandazioni per i Confessori per finire col Diritto Canonico… tutte le grandi espressioni della vita ecclesiastica ribadiscono questo principio. O la porzione di gregge che il pastore di Torino ha affidato a don Pizzocaro intravede il senso, l’utilità e la ragionevolezza di ciò che propone il parroco – ma se i genitori vanno a lamentarsi all’ufficio di Boeri è difficile assumerlo – oppure (proprio perché non si tratta di materia dogmatica) conviene fare un passo indietro, fermarsi, ascoltare. Anche chi ha il compito di insegnare fa bene a imparare.