Tra poco meno di un mese, come ha raccontato Davide Vairani su queste stesse colonne, un tribunale amministrativo francese dovrà pronunciarsi sulla sorte di Vincent Lambert, il quarantaduenne tetraplegico caduto in stato vegetativo permanente nel 2008 a causa di un incidente stradale. Lambert, che respira in maniera autonoma, deve essere alimentato e idratato artificialmente. Nel 2013 è diventato l’oggetto di una battaglia legale scoppiata quando la moglie Rachel ha fatto interrompere l’alimentazione al marito senza informare nessuno. I genitori di Lambert, una volta scoperta la cosa, hanno intimato ai medici di riprendere a nutrirlo. Da qui il contenzioso, transitato per il Consiglio di Stato e la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha scosso l’opinione pubblica francese (e non solo).
Sull’«affaire» di Vincent Lambert si sono pronunciati in tanti. Tra questi anche Fabrice Hadjadj, il geniale filosofo franco-tunisino molto apprezzato anche nel nostro paese. I pensieri di Hadjadj sono stati raccolti da Le Figaro il 6 gennaio 2015, alla vigilia dell’udienza a camere riunite (Grande chambre) della Corte europea dei diritti dell’uomo che avrebbe poi finito, nel giugno del 2015, per acconsentire alla sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione. Nonostante i quasi quattro anni di distanza quelle riflessioni ci sembrano ancora particolarmente incisive e perciò meritevoli di essere proposte anche al pubblico italiano.
Il caso di Vincent Lambert sollecita inevitabilmente dubbi, domande. Quale avvenire ci può essere per l’incurabile in un mondo performativo come il nostro? Ma soprattutto, è legittimo che un tribunale decida della vita o della morte di un essere umano? «Joseph de Maistre», ricorda Hadjadj, «diceva che il boia era la chiave di volta dell’ordine sociale. La postmodernità tecno-liberal-socialista sembra fornire oggi una strana conferma del suo discorso. Non sono favorevole alla pena di morte, ma bisogna riconoscerlo: da quando l’abbiamo abolita per i criminali non riusciamo a fare a meno di applicarla agli innocenti. Ai bimbi trisomici in utero, ad esempio. Ma anche – dato che il Consiglio di Stato su di lui ha deciso così, in attesa della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – a persone disabili come Vincent Lambert. Come se il boia che avevamo cacciato via con la maschera nera fosse ritornato col camice bianco. Come se la pena di morte che infliggevamo in base a un ordine penale si dovesse ormai concedere in base a un ordine compassionevole».
Da dove nasce questa rinnovata passione per l’elogio del boia? Da buon filosofo, Hadjadj individua nella morte per compassione la conseguenza di un principio generale: «quando l’istituzione giudiziaria umana non riconosce più una legge che la trascende – quella, poniamo, di un incondizionato rispetto per la vita -, quando tutto per lei diventa negoziabile, essa finisce sempre per concedere il potere sovrano di decidere chi sia degno di vivere o meno». Come sempre accade in casi-limite come quello di Vincent Lambert ci si interroga: una vita tanto menomata vale ancora la pena di essere vissuta? La replica di Hadjadj è fulminante: «Vale la pena per quello per cui siamo disposti a soffrire. Ora, quando misuriamo le cose in base al benessere tutto deve essere confortevole e dunque niente, propriamente parlando, vale più la pena. Una società del confort totale, ossia senza spirito di sacrificio, è necessariamente una società suicidaria, vale a dire svestita di senso». Accordare un «diritto di morire» indistinguibile dal «diritto di uccidere» è il sintomo di una insofferenza della società per tutto ciò che è debole, fragile, bisognoso di aiuto. Per questo Hadjadj si interroga e ci interroga: «Poniamoci adesso la domanda: la vita di un bambino vale la pena di essere vissuta? Senza dubbio. Eppure questo bambino è debole e dipendente. Dunque è soltanto in funzione della sua futura carriera che la giudichiamo tale? Non vi è forse qualche altra cosa ancora, che sboccia direttamente nei suoi sorrisini di adesso? Non è il fatto di essere là, offerto, in un abbandono che ci sconvolge e si appella alla nostra responsabilità? Viceversa, la vita di un consumatore autonomo (capace cioè di scegliere tra McDonald’s e Findus oppure tra cento programmi televisivi) vale la pena di essere vissuta? Al contrario, non è forse quando questo consumatore dovrà far fronte al tragico – e si strazierà elevando un grido verso il cielo – che toccherà la vera dignità umana?».
Lo scrittore spagnolo Juan Donoso Cortés aveva individuato nel XIX secolo una legge fondamentale della storia: la correlazione inversa tra la temperatura spirituale e la temperatura politica di un’epoca. Quando il termometro religioso sale quello politico scende, e viceversa. Quando la forza interiore (religione) è bassa allora cresce la forza esteriore (politica), e ciò vuol dire dispotismo, tirannia. In altre parole, quando si abbassa la temperatura spirituale si impone dappertutto la legge del più forte. Vicende come quella di Vincent Lambert (ma lo stesso vale per Charlie Gard e Alfie Evans, solo per citare i casi più recenti e più tristemente noti) sono i “marker” terrificanti di una più diffusa desertificazione spirituale. In una società suicidaria come la nostra c’è da stupirsi allora che venga meno quel «paradosso della carità» (o della «cavalleria») in cui Chesterton vedeva uno dei marchi del cristianesimo? Decade cioè l’idea secondo cui «quanto più una cosa è debole, tanto più è da rispettare». Per la cultura dello scarto denunciata incessantemente da papa Bergoglio vale giusto il contrario: quanto più una cosa è debole, tanto più è da schiacciare… Anche Hadjadj concorda sul punto: «Oggigiorno la vita che diciamo menomata è quella ridotta al solo piano fisico. Ma che dire di una vita menomata sul piano morale? Cosa è peggio? Essere un Vincent Lambert o un Adolf Hitler in piena forma? Avere un corpo da lattanti o un cuore di pietra?». Non per niente Bernanos diceva che l’uomo del nostro tempo ha «il cuore duro e le budella sensibili». La cultura della morte dilaga per delle ragioni ben precise, insiste Hadjadj: «È perché non sappiamo più provare orrore per l’ingiustizia che la sofferenza ci appare come il male assoluto e un handicappato, invece di apparirci come un innocente, ci sembra qualcosa di malvagio, un parassita… ».
Contro chi invoca il principio di autodeterminazione (perché l’uomo non dovrebbe essere libero di decidere della propria vita e della propria morte?) Hadjadj oppone la differenza enorme tra liberare dal male e sopprimere una vita: «C’è questo aneddoto a proposito di Antistene, il maestro di Diogene. Atrocemente sofferente di tubercolosi, incomincia a lamentarsi: «Ah, chi mi libererà dal mio male?». Diogene presenta immediatamente un coltello dicendogli: «Questo, maestro!». E Antistene osserva: «Ho detto “dal mio male”, non “dalla vita”». Dietro alla domanda di morte c’è una domanda di soppressione del male, e non della vita in quanto tale». Il problema non sta nel malato. Sta nel clima spirituale della nostra epoca, intessuto di un superbo efficientismo. Per Hadjadj infatti «il problema è la condizione dell’incurabile in un mondo della prestazione economica e tecnica». Si trascura un fatto: se un malato «domanda di morire è perché è già stato messo in una condizione di morte sociale, abbandonato, giudicato non come un esploratore in partenza per l’aldilà ma come uno scarto non riciclabile». Bisogna anche considerare che «la potenza tecnologica crea poi irresolubili situazioni di sopravvivenza (accanimento terapeutico), le quali possono solo condurre chi le analizza alla perplessità». Infine, come ben si sa, l’economicismo ha messo piede anche là dove non sarebbe mai dovuto entrare: negli ospedali, «sempre più sottomessi a esigenze di redditività che comandano di liberarsi il più velocemente possibile della vecchia signora». Pertanto la libertà di morire e lasciar morire che tanto viene rivendicata «va considerata alla luce di tutti questi condizionamenti». Certamente, è pienamente legittimo il desiderio di morire con dignità. «Ma per quale motivo», si chiede Hadjadj, «chiamiamo «morire con dignità» ciò che corrisponde piuttosto a «uccidersi» o a «essere uccisi per rifiuto del dramma»?». Qual è allora una buona morte? «La sola morte buona, la sola morte degna», afferma il filosofo francese, «è quella di chi dona la vita per la giustizia, non quella in cui, nel nome della conservazione della propria orgogliosa lucidità di uomo, si accetta di farsi sopprimere come un cane, con una puntura». «Quanto a me», confessa Hadjadj, «se mai dovessi diventare intelligente quanto una pianta grassa, domando ai miei cari di continuare a coltivarmi e ad ammirarmi come un fantastico fico… ». Il paradosso della nostra società della performance, coi suoi miti della prestazione e del successo, è il suo voler mettere in mostra anche un lato compassionevole. La morte non viene somministrata con brutalità. Al contrario, per applicarla ci si appella alla pietà, si invoca la commozione per la sorte disgraziata dei malati… Come si spiega? «Compatire», spiega Hadjadj, «significa «soffrire con». Questo implica la cura, la pazienza e la vicinanza. Col compassionevole della prestazione si tratta, al contrario, di non soffrire più con, ma di trovare – per mezzo del veleno, dell’impazienza e dello sgombero – quella che a giusto titolo possiamo chiamare una soluzione tecnica».