Come si conciliano famiglia e lavoro? La donna sposata deve rinunciare alla carriera? Meglio un part-time per una madre lavoratrice? La risposta di Chesterton, in questo testo inedito
La recente controversia sull’inquadramento professionale della donna sposata è parte di una questione molto più ampia, che non è limitata alla professione della donna e neppure alla donna. Implica una distinzione che entrambe le parti di questa discussione generalmente dimenticano. Per come viene portata avanti, ci si concentra solo sul valutare se la vita familiare sia ciò che viene definito un “lavoro full time” o un “lavoro part time”. Ma c’è un’altra distinzione da fare, quella tra un lavoro intero e un mezzo lavoro, o anche la centesima parte di un lavoro. Non riguarda il tempo che occupa, ma il campo che abbraccia.
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La parte e il tutto
Una volta un grande industriale si vantò del fatto che per costruire un perno fossero necessari venti operai; e io spero ci si sia seduto sopra, a quel perno. Ma l’uomo che ha costruito un ventesimo di perno non ha lavorato un ventesimo di ora. Può aver benissimo impiegato 12 ore e se dipendesse dall’allegro industriale avrebbe potuto lavorare anche 24 ore. Avrebbe potuto lavorare una vita intera, ma non avrebbe mai fatto un perno intero.
Ecco, a questo mondo continua a esistere un gruppo di matti, di cui sono onorato di far parte, che pensa sia giusto preservare quanto più possibile dei lavori interi. E così è nostra abitudine congratularci, con l’esultanza un po’ folle che ci contraddistingue, quando troviamo qualcuno che ha adempiuto per intero e personalmente una qualsiasi cosa. Ci rallegriamo scoprendo che al mondo esiste ancora qualche individuo che può vedere l’inizio e la fine del suo lavoro.
Ci rendiamo conto che spesso questo è incompatibile con la civiltà moderna e scientifica, e questa constatazione ci ha talvolta spinti a dire fuori dai denti cosa ne pensiamo della civiltà moderna e scientifica. Ma comunque, sia che abbiamo ragione o torto, il fatto è che quest’importante distinzione viene trascurata; non dovrebbe, eppure è costantemente dimenticata, anche nel dibattito riguardo al lavoro delle donne.
Naturalmente esistono persone che fanno un lavoro che non concludono. È assai probabile che ci siano persone che fanno un lavoro che non comprendono. Ma non è tra i nostri desideri moltiplicare all’infinito il numero di queste persone e poi gridare ai quattro venti che è emancipazione e uguaglianza. Si può dire che sia emancipazione permettere a una donna di fare un pezzo di perno, se quello che lei vuole davvero è fare quel pezzo di perno. Si può dire che sia uguaglianza se lei trabocca di gelosia furiosa verso il marito, che ha il privilegio di fare quel pezzo di perno.
Però la domanda che noi vogliamo porre è un’altra: è più umano produrre un pezzo di perno o cucire un intero grembiule? (gioco di parole in inglese, dove “pin” è perno e “pinafore” è grembiule – NdT) E ci spingiamo anche oltre, domandandoci se sia più umano fare un grembiule o prendersi cura di un bambino.
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Serva o padrona?
La vera questione riguardo all’idea che la maternità sia un lavoro part time è che resta comunque uno dei pochi lavori che può essere considerato intero e compiuto, anzi: è di per sé quasi un fine. Un essere umano è in un certo senso un fine in se stesso. Qualunque cosa lo renda felice e di sani principi è, agli occhi di Dio, diretto a un fine ultimo. Non è, come invece quasi tutte le professioni e i mestieri, una semplice macchina o un mezzo per raggiungere uno scopo.
E il prendersi cura di un essere umano è una cosa che, per costituzione naturale dell’uomo, può essere adempiuta con un entusiasmo positivo e impagabile. Che sia o meno un lavoro part time, non è fatto da un cuore a metà.
Ora, alla prova dei fatti, non ci sono molti lavori che la gente normale porta a termine con schietto entusiasmo. Spesso si falsifica la prospettiva citando i casi eccezionali di specialisti che hanno ottenuto un successo. Può senz’altro esistere una donna appassionata di nuoto e capace di attraversare il Canale della Manica finché non ha battuto un certo record. Ci può essere, inoltre, una donna così appassionata della scoperta del Polo Nord da portarla a termine molto tempo dopo che la scoperta è avvenuta. Naturalmente questi casi sensazionali occupano i grandi titoli dei giornali, proprio perché sono casi eccezionali.
Ma non rispondono alla domanda sulle donne, se siano più libere nell’ambito professionale o nella vita domestica. Per rispondere a questa domanda, dovremmo prima immaginare che tutti i marinai in servizio sulle navi della Manica siano donne, che tutti i pescatori di aringhe siano donne e tutti i cacciatori di balene del Polo Nord siano donne; e poi valutare se la peggio pagata e più prostrata di queste lavoratrici conduca davvero una vita più felice o pessima.
Salterebbe subito agli occhi che la stragrande maggioranza di loro deve obbedire a degli ordini; e forse c’è tra loro una considerevole minoranza che obbedisce a ordini che non comprende del tutto. Non sono molte le navi in cui una donna è al comando; ma sono tantissime quelle che sono al comando di una casa.
Prendere cento donne, tirarle fuori da cento case e dar loro cento navi sarebbe ovviamente impossibile, a meno che le navi non siano canoe. E questo spingerebbe fino al fanatismo l’ideale individualistico di gente che rema sulla propria canoa.
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Prendere cento donne, tirarle fuori dalle loro cento case e metterle a bordo di dieci navi, o più probabilmente di due navi, è ovviamente un modo per accrescere di molto il numero dei servi e diminuire quello delle padrone. L’unica nave che io ricordi dotata di tale equipaggio era quella delle Bab Ballad comandata dal Luogotenente Bellay (raccolta di versi satirici di W. S. Gilbert – NdT). E anche in quel caso si noterà che le giovani signore che salparono con lui avessero un ideale domestico più che professionale; d’altra parte neppure il comandante era un tipo professionale e, ve lo ricorderete, esonerava i suoi marinai dalla maggior parte dei doveri e si divertiva a sparare con la sua grande pistola.
Questa casa non è un negozio
Immagino che la condizione ben più subordinata delle donne impiegate nei negozi e nelle fabbriche sia parecchio più faticosa. Ho preso in considerazione un esempio appena abbozzato e molto elementare, ma non sono il primo oratore che ha trovato calzante discutere dello Stato usando la brillante e originale similitudine della nave.
Ma il principio si applica altrettanto bene al negozio. Si applica con straordinaria esattezza al negozio moderno che è diventato grande quasi quanto una nave. Un negozio o una fabbrica devono fondarsi sulla presenza di un gran numero di servi, mentre una delle rare istituzioni che non ha nessun bisogno di questa enorme massa di servi è la casa. Continuo a pensare, quindi, che per la signora interessata alle navi il momento simbolicamente supremo del viaggio sia quando la sua nave ritorna a casa. E penso anche che ci siano certe navi simboliche che avrebbero fatto molto meglio a tornare a casa e restarci.
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So tutto riguardo i necessari cambiamenti e compromessi prodotti dalle condizioni accidentali di oggi. Non sono fuori dal mondo. Ma la discussione in corso non parla di modificare l’ideale, sostiene di volerlo abolire. Suggerisce di voler applicare un nuovo metodo di giudizio sull’essere madre, che non ha più come metro di giudizio il valore di un lavoro intero (nel senso di un lavoro compiuto e soddisfacente), ma lo riduce alla valutazione di ciò che si definisce lavoro part-time, cioè applica alla famiglia il criterio del calcolo meccanico che è tipico del mondo dell’impiego.
Un tempo esistevano divinità domestiche e santi del focolare e fate della casa. Non sono sicuro che esistano divinità, santi o fate delle fabbriche; potrei sbagliarmi perché non sono esperto del mondo commerciale, ma non ne ho ancora sentito parlare. E penso che il motivo risieda nella distinzione che ho fatto all’inizio. L’immaginazione, l’istinto religioso e il senso dell’umorismo umano hanno campo libero quando le persone abitano uno spazio che, per quanto piccolo, è pieno e completo come un cosmo.
Lo spazio dove nascono i bambini, dove muoiono gli uomini, dove il dramma della vita mortale va in scena, non è un ufficio, un negozio o un’agenzia. È qualcosa di dimensioni più piccole ma dallo scopo più grande. E seppure nessuno sia così stupido da credere che sia l’unico posto dove una donna possa lavorare, la casa è un luogo che possiede quel carattere di unità e universalità che non si trova in nessuna frammentaria esperienza di quel panorama in cui vige la divisione del lavoro.
(Titolo originale: Where Should The Mother be? , in Illustrated London News 18 Dicembre 1926)