Orientarsi verso un ospedale anziché un altro può fare la differenza al momento del parto. Per questo, le autorità ministeriali hanno stabilito alcuni criteri che consentono di valutare le strutture più virtuose, in base anche alle condizioni di salute e alle personali prioritàdi Paola Rinaldi, in collaborazione con dottoressa Maria Vicario, presidente della Federazione nazionale degli Ordini della professione di ostetrica, dottoressa Stefania Rampello, ginecologa, responsabile dell’Unità Gravidanza fisiologica e parto dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dottoressa Marta Campiotti, presidente dell’Associazione nazionale ostetriche parto a domicilio e Casa maternità
La vicinanza a casa non è un buon criterio per scegliere la struttura in cui partorire, o per lo meno non deve essere l’unico, perché gli elementi da tenere in considerazione sono soprattutto qualità, sicurezza e numero delle nascite. Stando ai dati del Programma nazionale esiti 2017, una fotografia della qualità italiana dell’assistenza sviluppata dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) per conto del ministero della Salute, è l’Ospedale Sant’Anna di Torino a registrare ogni anno il maggior volume di parti (7.052), seguito dal Policlinico di Milano (5.906) e dal San Pietro Fatebenefratelli di Roma (4.441).
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«Il dato numerico è importante perché garantisce un’esperienza ostetrico- ginecologica e neonatologica appropriata, necessaria per garantire la sicurezza a mamme e bambini», considera la dottoressa Maria Vicario,presidente della Federazione nazionale degli Ordini della professione di ostetrica. Non a caso, l’Accordo Stato Regioni del 16 dicembre 2010 – che ha dettato l’orientamento della politica sanitaria in area materno-infantile – ha previsto la progressiva chiusura dei punti nascita dove si effettuano meno di 500 parti l’anno e l’accorpamento di quelli che non superano i mille, seppure per alcuni sia prevista una deroga per specifiche caratteristiche orografiche. Si tratta di quei centri che operano in realtà territoriali difficili, come aree lontane o piccole isole, dove gli spostamenti verso altre strutture potrebbero compromettere l’incolumità di gestanti e nascituri a
causa delle particolari caratteristiche del luogo, della viabilità disagevole o delle distanze chilometriche. «Anche questi punti nascita comunque devono garantire specifici standard operativi, tecnologici e di sicurezza, come la capacità di gestire le emergenze», tiene a precisare la dottoressa Vicario.
I due livelli assistenziali
In realtà, al di là delle deroghe, restano troppi i punti nascita che eseguono meno di 500 parti l’anno: sebbene siano calati di numero (passando dai 155 del 2010 ai 97 del 2016), rappresentano ancora il 21 per cento del totale, tra l’altro in un conteggio che esclude le strutture dove avvengono meno di dieci parti annui. Il 37 per cento si trova al Nord, il 20 per cento al Centro e il 43 per cento al Sud. Ma, seppure la riorganizzazione sia ancora in corso, l’Accordo Stato Regioni del 2010 ha riclassificato i punti nascita in due livelli di complessità, rispetto ai tre recedenti. Il secondo corrisponde al terzo che era previsto dal precedente Pomi (Progetto obiettivo materno infantile) ed è quello che offre l’assistenza più intensiva, è in grado di affrontare le maggiori complicanze ed è consigliato, ad esempio, in caso di parto gravemente prematuro o complicato da importanti patologie materne (anomalie di inserzione placentare, gravi forme di diabete, obesità, ipertensione…).
«L’attuale primo livello, invece, ha subito una vera e propria trasformazione, potenziandosi e acquisendo nuove competenze rispetto al passato, al punto da non offrire più solamente un’assistenza di base appropriata al parto fisiologico, cioè quello a basso rischio, ma diventando capace di intervenire anche in situazioni di urgenza ed emergenza materna o neonatale grazie a specifici standard strutturali, tecnologici e organizzativi », aggiunge Vicario.
A dimostrarlo è il fatto che si ricorre sempre meno al sistema di trasporto in emergenza della madre (Stam) e del neonato (Sten), che consistono nel trasferimento in centri più specializzati. «Il problema emergente piuttosto è la carenza di medici esperti in neonatologia, a causa di un’inadeguata programmazione delle scuole di specializzazione, così come le previsioni parlano di una mancanza di ginecologi a partire dal 2026». Dunque, fra primo e secondo livello, come orientarsi nella scelta? In base a precisi parametri clinici, strumentali e laboratoristici, ogni donna dovrebbe essere orientata dal medico verso la struttura in grado di assicurarle il migliore livello di cura, a costo di scegliere un punto nascita al di fuori della propria. Provincia (o addirittura Regione) di residenza. «Spesso, però, chi opta per un ginecologo privato come figura professionale di riferimento durante la gravidanza è portato a seguirlo anche al momento del parto, appoggiandosi all’ospedale in cui questo esercita, trascurando altri criteri».
La Carta dei servizi
Per non lasciare nulla al caso, invece, si può ricorrere a uno strumento facile e immediato, la Carta dei servizi, il documento che ogni struttura sanitaria deve mettere a disposizione dell’utenza sul proprio sito Internet, elencando tutti i servizi offerti e i livelli di qualità garantiti. All’interno, si può trovare non soltanto il numero annuo di nascite, ma anche altri elementi utili per decidere. «Per esempio, si può verificare la dotazione di una vasca per il parto in acqua, la libertà di scegliere la posizione in cui partorire, la presenza della terapia intensiva neonatale, la disponibilità del servizio di parto-analgesia 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, ma soprattutto la possibilità di accedere a un corso di accompagnamento alla nascita, utile per familiarizzare sia con gli operatori
sia con gli ambienti della struttura», elenca la dottoressa Vicario. «Un altro elemento da tenere in considerazione è la possibilità di avere accanto il partner o una persona di fiducia durante il travaglio e il parto, visto che il supporto emotivo è fondamentale per rilassarsi, consentendo talvolta di ridurre l’uso di antidolorifici».
Ma nella Carta dei servizi si può verificare anche se viene applicato il modello di assistenza ostetrica one-to-one, dove per ogni donna è prevista un’ostetrica dedicata a lei, così come se mamma e bambino possono restare a contatto per le prime due ore dopo il parto (bonding) o se il neonato può rimanere in camera con la mamma per l’intera durata della degenza (rooming-in), anziché essere portato nella nursery. «Gli ultimi due aspetti sono molto importanti, perché le prime ore dopo la nascita sono fondamentali per creare il legame tra madre e figlio, impratichirsi nell’accudimento del piccolo e favorire l’allattamento al seno».
Numero di cesarei
Non meno importante è il volume di tagli cesarei, per cui esistono sia linee guida nazionali sviluppate all’Istituto superiore di sanità sia raccomandazioni generali dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo le quali non andrebbe eseguito più di un parto cesareo su sette (15 per cento).
«Trattandosi di una pratica chirurgica a tutti gli effetti, questo intervento comporta un maggiore rischio di complicanze intraoperatorie, emorragiche e infettive; pertanto, andrebbe eseguito solo in presenza di precise indicazioni», sottolinea la dottoressa Stefania Rampello, responsabile dell’Unità Gravidanza fisiologica e parto dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
«Il taglio cesareo può rendersi necessario ad esempio in particolari situazioni di emergenza che possano mettere a rischio la vita della mamma o del bambino, se il feto è in presentazione podalica, in molte gravidanze gemellari oppure in presenza di alcune patologie materne». Eppure, l’Italia figura tra i Paesi europei che ricorrono di più all’intervento, seppure negli ultimi anni la situazione sia migliorata, passando dal 29 per cento di tagli cesarei primari (quelli eseguiti in donne non cesarizzate in precedenza) del 2010 al 24,5 per cento del 2016: facendo due conti, 58.500 donne a cui è stata evitato il “taglio”.
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«Si sta riducendo anche il divario fra le Regioni del Nord e del Sud, dove il maggiore tasso di tagli cesarei era legato in passato a fattori diversi», riferisce la dottoressa Rampello. «Grazie a una progressiva riorganizzazione dei punti nascita, in Sicilia, Sardegna e Puglia si registrano miglioramenti rilevanti anche su questo fronte. Addirittura a chi ha già avuto un precedente cesareo, l’ospedale offre l’opportunità di partorire una seconda volta in modo naturale: si parla tecnicamente di parto vaginale dopo taglio cesareo, che può essere affrontato in tranquillità, purché la struttura ospedaliera possa assicurare l’esecuzione di un eventuale intervento urgente in tempi molto rapidi ». Nel valutare le strutture, quindi, sarebbe importante tenere conto anche di questa garanzia.
Chi resta a casa
Ma esiste anche una nuova generazione di mamme che, anziché affidarsi a una struttura, scelgono di riscoprire una pratica antica, affrontando il parto in casa. Ad assisterle ci sono sempre due ostetriche qualificate, che seguono precise linee guida e offrono un sostegno personalizzato, non sempre possibile in ospedale per motivi organizzativi. «Partorire fra le mura domestiche è assicurante, intimo, confortevole, perché in qualche modo consente alla donna di rispettare i suoi tempi fisiologici nell’ambiente che le è familiare, accanto agli affetti più cari», spiega la dottoressa Marta Campiotti, presidente dell’Associazione nazionale ostetriche parto a domicilio e Casa maternità. «Ovviamente, questa scelta non è sempre possibile, perché è indispensabile che la gravidanza sia fisiologica e a basso rischio: ciò significa che la donna deve essere in buona salute e non presentare quadri clinici di ipertensione, diabete o malattie cardiovascolari; la crescita del bambino deve essere regolare; la sua posizione deve essere cefalica, cioè con la testa rivolta all’ingiù; il parto deve avvenire a termine, il travaglio deve iniziare in maniera spontanea e l’ospedale di riferimento non deve distare più di 30-40 minuti. Può capitare infatti che in qualsiasi momento si decida di organizzare il trasferimento, non per un’emergenza, ma per motivi di opportunità che le ostetriche valutano in base all’esperienza, nell’interesse di mamma e bambino».
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Senza stress
Il rapporto di fiducia con le ostetriche va instaurato già nel corso dei nove mesi di gestazione, perché è importante iniziare il prima possibile un percorso di conoscenza reciproca. Ma dove trovare professioniste disposte a condividere questa opportunità? L’Associazione nazionale ostetriche parto a domicilio e Casa maternità, all’indirizzo www.nascereacasa.it, offre una lunga lista di nominativi, suddivisi per Regione, o in alternativa si può contattare il Collegio delle ostetriche attivo per la propria Provincia di residenza, richiedendo l’elenco delle libere professioniste che seguono le donne a domicilio. «Una soluzione intermedia sono le Case maternità, a cui si può accedere sempre con i medesimi criteri di sicurezza e da non confondere con le stanze del parto naturale, centri nascita realizzati all’interno di ospedali e cliniche.
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Le prime invece sono vere e proprie case, frequentate dalle coppie prima e dopo il parto per corsi di preparazione alla nascita, sessioni di yoga, massaggi al neonato, gruppi di autoaiuto in allattamento; insomma, sono luoghi di salute e benessere dove l’aspetto sociale assume molta importanza», tiene a specificare Campiotti. «Per quanto riguarda la sicurezza, che spesso si teme di mettere a repentaglio con queste scelte alternative, va detto che le ricerche scientifiche hanno dimostrato come il parto extra-ospedaliero, se selezionato, assistito e programmato, cioè voluto dalla donna e non imposto dalle circostanze, sia paragonabile come esiti a quello affrontato in ospedale. Insieme all’ostetrica, ogni donna deve scegliere la soluzione più idonea sia alle condizioni di salute, sue e del bambino, sia al proprio senso di sicurezza personale, cercando il luogo in grado di trasmetterle più tranquillità, al di là delle statistiche e dei racconti delle amiche». In genere, partorire a casa costa intorno ai duemila euro e alcune Regioni (come Piemonte, Emilia Romagna, Marche, Lazio e Provincia Autonoma di Trento) hanno già riconosciuto con leggi specifiche la possibilità di rimborso, di norma. parziale, intorno ai 900 euro.
Se il ricordo è traumatico
Il 21 per cento delle donne italiane di età compresa tra i 18 e i 54 anni, con almeno un figlio di 0-14 anni, dichiara di aver subito un maltrattamento fisico o verbale durante il primo parto. È il dato emerso dalla prima ricerca nazionale realizzata dalla Doxa per conto dell’Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia, in collaborazione con le associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo Onlus. La principale esperienza negativa riguarda la pratica dell’episiotomia, un’incisione chirurgica del perineo praticata per facilitare il parto: subita da oltre la metà delle mamme intervistate, nel 61 per cento dei casi (1,6 milioni di partorienti) è stata eseguita senza aver dato il consenso informato per autorizzarla. Un tempo considerata utile per agevolare l’espulsione del bambino, oggi è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come una pratica dannosa, perché rispetto alle lacerazioni naturali necessita di tempi più lunghi per il recupero con rischi anche di infezioni ed emorragie.
Le quindici strutture italiane dove si effettua ogni anno il maggiore numero di parti sono:
7.052 Ospedale Ostetrico Ginecologico Sant’Anna di Torino
5.906 Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
4.441 Ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma
4.235 Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo
4.219 Policlinico Universitario Gemelli di Roma
3.565 Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze
3.519 Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli di Roma
3.348 Policlinico Sant’Orsola- Malpighi di Bologna
3.234 Presidio Ospedaliero Spedali Civili di Brescia
3.215 Ospedale dei Bambini Vittore Buzzi di Milano
3.115 Ospedale di Padova
3.008 Ospedale Filippo del Ponte di Varese
2.993 Ospedale Maggiore C. A. Pizzardi di Bologna
2.887 Policlinico di Modena
2.837 Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero di Brescia