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Veramente “alcuni Papi Dio li infligge”? Scopriamo cosa pensava (davvero) Vincenzo di Lérins

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Giovanni Marcotullio - Breviarium - pubblicato il 03/09/18
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Normalmente le pseudoepigrafie – cioè le attribuzioni fittizie ad autori illustri e autorevoli – conservano quantomeno un filo di verosimiglianza, ossia una certa rispondenza tra la frase citata e l’autore a cui la si attribuisce. Da qualche anno invece imperversa nella blogosfera cattolica italica una citazione attribuita a un monaco belga vissuto e morto in Provenza che pensava esattamente il contrario di quanto dice quella frase…Qualche sera fa una lettrice è venuta a scrivere sulla nostra pagina Facebook di Breviarium che «Alcuni papi Dio li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge»: era un commento al post di Emiliano Fumaneri in cui si riporta un discorso di san Pio X su come si debba amare il Romano Pontefice.


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L’affermazione in sé è decisamente graffiante, ma quel che mi ha colpito è stata l’attribuzione a Vincenzo di Lérins, monaco di origini belghe morto in un anno imprecisato delle prime decadi del V secolo. Mi ha colpito sia perché Vincenzo è uno dei Padri che mi è più caro e a cui mi lega un particolare senso di comunione ecclesiale… sia perché – comunque la si pensi – quella frase è assolutamente prematura per un qualunque anno della prima metà del V secolo. Sarebbe come – che so… – se si attribuisse a Carlomagno un parere di De Gasperi sulla Costituente Repubblicana Italiana, o come se si pretendesse di vendemmiare a marzo. A marzo le viti stanno gemmando e neppure sono in fiore… così sulle labbra di Vincenzo (il quale comunque la pensava in tutt’altro modo, come indicherò fra poco) quella dichiarazione è sconcertante per l’anacronismo, ancora prima che per il contenuto: era il Papato romano a non essere ancora tanto espanso e pervasivo da giustificare simili prese di posizione (sia a favore sia contro).

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In secondo luogo mi sono stupito di non aver mai letto quella citazione… non solo nelle pagine di Vincenzo ma neppure altrove: cercando su Google ho trovato nella risposta motivo di conforto. Nessuno, mai, riporta il dettaglio della citazione, come se ciascuno l’avesse copiata dagli altri, e neppure mi è riuscito di rinvenirla in libri anteriori alla nostra epoca (intendo gli ultimi vent’anni), disgraziatamente incolta. Ulteriore motivo di consolazione l’ho trovato nell’elenco degli autori che hanno promanato nella blogosfera questa bufala: non l’avevo mai letta perché non sono solito abbeverarmi a certe «cisterne screpolate, che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13). Nell’ordine (scelto da Google), abbiamo Felice de Matteis, Antonio Righi, “Maria di Nazareth” («coll’acca», aggiungerebbe Amendola), Antonio Socci (che lo scrisse anche in “Non è Francesco”), Francesco Antonio Grana, “Constantinus XI”, “Acta Apostaticæ Sedis” (un nome, un programma), Nello Scavo, Andrea Tornielli (che però almeno una volta, anche se non sempre, sfumò con “attribuita a”), Francesco Agnoli, Fabrizio Ciarapica, Franco Mariani… [e poi anche basta perché non potevo infliggermi più di tre pagine di risultati di Google sull’argomento].


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In lingua inglese, poi, ho trovato solo Fr. Linus Clovis – il quale lo scrive, su lifesitenews, aggiungendo sommessamente: «This certainly is a view to which Pope Emeritus Benedict XVI subscribes». Verrebbe da chiosare che solo la presunzione di certi sedicenti apologeti colma la misura della loro ignoranza.

Quello che davvero pensava Vincenzo di Lérins

Vincenzo, di nazionalità gallica, presbitero presso il monastero dell’isola di Lerino, uomo versato nelle Sacre Scritture e adeguatamente formato nella conoscenza delle dottrine ecclesiastiche, compose in stile decisamente arioso e chiaro un’ottima trattazione, finalizzata all’aggiramento dei circoli di eretici, e la chiamò – senza firmarla [pratica di umiltà tipica già del monachesimo tardo-antico, N.d.R.] – “[Appunti] di un pellegrino contro gli eretici”.

Gennadio, De viris inlustribus 64

In latino “quaderno di appunti promemoria” si dice “Commonitorium”, il nome con cui per brevità è convenzionalmente ricordata l’opera. Amo Lérins, Saint Honorat, l’isola dei santi… quel pugno di terra gettato nella Costa Azzurra – Accanto a Santa Margherita, l’isola che avrebbe ospitato il dramma de “la maschera di ferro”! – che nel suo isolamento nel deserto marino divenne per parecchi decennî prima un opificio di monachesimo – «di scienza, di dottrina e di pietà» (Umberto Eco) –, poi una fucina di vescovi e di dottori, infine un ricettacolo di santi. Amo l’influenza che il suo circolo seppe irraggiare con semplicità – non era una lobby: semplicemente irradiava la propria fecondità – per tutta la Provenza e fino in Italia. Amo il franco e costante dialogo dei “gallicani doctores” con Roma e con Cartagine, mentre quest’ultima veniva sommersa dall’arianesimo dei Vandali e l’altra si dimenava tra Oriente e Occidente per tutelare «la fede che il Beato Pietro trasmise ai Romani» (Editto di Tessalonica, 380) e definire i termini concreti del “primato d’onore” che tutti sempre riconobbero alla Prima Sedes.



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Proprio per questo sono tanto sconcertato nel constatare la crassa ignoranza degli “opinion makers” di certo “cattolicesimo militante” quanto sereno nell’affermare che Vincenzo non avrebbe mai sostenuto simili tesi. E la riprova si fa senza grosse difficoltà, visto che l’unica opera unanimemente attribuita a Vincenzo è quel Commonitorium ricordato nella notitia di Gennadio di Marsiglia. Ora, gli unici Papi romani di cui Vincenzo parla sono Stefano I (254-257), Celestino I (422-432) e Sisto III (432-440): il primo è ricordato per aver resistito alla diffusione della pratica dell’iterazione del Battesimo; il terzo per essersi opposto alla febbre nestoriana; il secondo per aver lottato contro “l’errore” che allora imperversava nelle Gallie. E anzi, Vincenzo è fin troppo ottimista nel ritenere che i Papi abbiano sempre e solo “mantenuto fermo il timone”, laddove invece spesso si è trattato di operare delle scelte (e di contrastare o ignorare pareri contrarî).

Dal Commonitorium

Del primo caso leggiamo:

Una volta dunque Agrippino, Vescovo di Cartagine di venerata memoria, primo fra tutti i mortali, contro i canoni divini, contro la regola della Chiesa universale, contro il sentire di tutti i suoi confratelli, contro il costume contro gli istituti degli antichi riteneva che il battesimo si potesse reiterare. E questa presunzione generò tanto male che non solo aveva permesso a tutti gli eretici di commettere sacrilegio, ma aveva dato occasione di errore anche ad alcuni cattolici. Quando dunque da ogni dove si levarono proteste contro l’innovazione e ovunque i sacerdoti [leggi “i Vescovi”] si distinsero a misura del loro zelo nell’opporvisi, allora Papa Stefano, di beata memoria, che presiedeva la Sede Apostolica, resistette con altri suoi colleghi… ma va detto che resistette più degli altri, ritenendo (così mi pare) di dover superare nell’ardore della fede tutti gli altri tanto quanto maggiore delle rispettive era il suo soglio.

E allora, in un’epistola indirizzata all’Africa stabilì: «Niente va innovato se non ciò che è stato trasmesso» [«Nihil novandum nisi quod traditum est»]. Quell’uomo santo e prudente comprendeva come niente conferisse una sensatezza e una ragione alla pietà se non che tutto quanto nella fede era stato ricevuto dai padri con quella medesima fede venisse consegnato ai figli, e che noi non dobbiamo portare la religione dove ci pare, ma piuttosto dobbiamo seguirla lì dove essa ci conduce: questo è proprio della modestia e della gravità cristiane – che non diamo ai posteri le nostre cose, ma conserviamo ciò che abbiamo ricevuto dagli antichi.

Vincenzo, Commonitorium vi

E del secondo:

Anche se tutto quanto abbiamo detto finora basta e avanza per cancellare ed estinguere quante si voglia profane innovazioni, tuttavia perché alla pienezza non manchi qualcosa aggiungiamo in ultimo una duplice autorità della Sede Apostolica: una del santo Papa Sisto, che ora illustra venerando la Chiesa Romana; l’altra del suo predecessore, di beata memoria, Papa Celestino, che qui ci è sembrato necessario frapporre. Dice infatti il santo Papa Sisto in una lettera che aveva mandato al Vescovo [Giovanni di Antiochia, N.d.R.] riguardo al caso di Nestorio: «Quindi, poiché come dice l’Apostolo la fede è una – la fede che ha conseguito con successo – crediamo ciò che deve essere detto e diciamo ciò che deve essere mantenuto». Ma cos’è che dev’essere detto, e cosa deve essere mantenuto? Prosegue così: «Non si dia altro spazio all’innovazione, perché nulla conviene aggiungere a quanto è consolidato; la chiara fede e la devozione degli antichi non sia turbata da alcuno schizzo di fango».

Questo è sentire apostolico: la fede degli antichi viene illustrata dalla ragione e le innovazioni modaiole le descrive come schizzi di fango. Ma anche il santo Papa Celestino disse cose simili in modo analogo. Infatti nell’epistola che mandò al clero delle Gallie tacciò i sacerdoti di connivenza perché, indebolendo col silenzio l’antica fede, permettevano alle innovazioni profanedi montare: «È veramente colpa nostra, se col silenzio alimentiamo l’errore. E quindi quanti errano siano così puniti: a loro non sia permesso di predicare liberamente». E se qui qualcuno dubitasse su chi fossero quelli a cui si riferiva quando proibiva che parlassero liberamente – i predicatori della fede consolidata o gli inventori di novità – lasci parlare il mittente, che si spiega subito dopo. Prosegue infatti: «La smetta, se il fatto sussiste». E “se il fatto sussiste” significa: se qualcuno viene ad accusare presso di me alcune vostre città e provincie di star consentendo all’errore con subdola dissimulazione, «la smetta, se la cosa sta così, di schiacciare la fede consolidata sotto le novità». Così parlò il beato Celestino: non è la pratica consolidata che soverchia le novità, ma piuttosto sono queste che la devono smettere di schiacciare quella.

Ivi xxxii

Limiti storico-critici

Quale fosse questo errore è cosa difficile a dirsi con certezza: la discussione accademica immagina che i vaghi riferimenti siano all’errore semipelagiano (“semipelagianesimo”, in effetti, non è un nome antico: all’epoca lo chiamavano spesso “l’errore”, come tante altre eresie orfane di padre). E il semipelagianesimo era orfano di padre proprio perché in un certo senso non era un’innovazione, ma tante cose dovrebbero essere dette a spiegazione e qui ci porterebbero fuori strada: a noi ora premeva di mostrare i soli due passaggi in cui nell’opera di Vincenzo di parla di Papi.


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Sono tre, e di loro si afferma soltanto che abbiano sempre difeso la fede cattolica e conservato la Tradizione degli antichi: se questo è in certa misura opinabile, sul piano storico e per quanto riguarda la forma dei contenuti, sicuramente è corretto in un’ottica di sviluppo diacronico e relativamente alla sostanza delle dottrine. Il semipelagianesimo – “eresia” aerea e sfuggente, che difficilmente si individuava in autori precisi e da cui pertanto tutti potevano essere sospettati infetti – circolava ampiamente nelle orbite di Lerino. Ora avversato, ora carezzato; ora addomesticato, ora condannato. Ma questa è un’altra storia…

Saluto e augurio

L’invito che con questo post vorrei dare non è quello a tenere una copia del Commonitorium in libreria (e a leggerla), anche se questo farebbe senza dubbio bene, ma a cercare di essere un minimo serî, quando si parla delle cose di Dio… e anche quando si parla di cose di Chiesa. Già è sciocco entrare in un dibattito ecclesiale con presupposti ideologici che nulla hanno a che vedere con la materia (i motivi dell’avversione a Francesco diffusa in certo milieu sono tutto fuorché legati alla fede): ma almeno si eviti di tirare in ballo (a casaccio) gli scrittori ecclesiastici. Come si dice, scherza con i fanti…