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Jennifer Aniston: siamo donne che non possono avere figli, non cose guaste

JENNIFER ANISTON
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Annalisa Teggi - pubblicato il 30/08/18
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Vedere incompiuta la propria attesa di maternità può diventare un dono ferito a tutti, per riflettere sulla fecondità oltre gli stereotipi

Nessuno sa cosa accade tra le mura di casa. Nessuno pensa a quanto possa ferire me e il mio compagno. Non sanno quello che ho passato dal punto di vista medico ed emotivo. C’è una pressione sulle donne a essere madri, se non lo si diventa, si viene trattate da cose guaste. Forse il mio scopo su questo pianeta non è quello di procreare. (da InStyle)

Sono queste parole della bellissima Jennifer Aniston, rilasciate a Molly Mc Nearny, a rimbalzare sui giornali di mezzo mondo in questi giorni.
Uno sfogo sincero eppure trattenuto, dopo essere stata additata come «quella che non è capace di tenersi un uomo» e «quella che non vuole figli perché è egoista e pensa solo alla carriera». Di fronte ad accuse perfide ed ingiuste di ben minore entità io sarei andata in crisi; in effetti è capitato proprio ieri e ho toccato con mano la mia fragilità estrema per delle inezie.


GABRIELLA GAMBINO
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Il coltello del gossip, la carne ferita

Jennifer Aniston, evidentemente, ha imparato a gestire tutto il clamore mediatico che la circonda dai tempi in cui era l’amatissima Rachel Green di Friends. Poi è diventata l’invidiatissima moglie di Brad Pitt, poi la ex per eccellenza, scaricata per colpa di una mozzafiato Angelina Jolie. Insomma, lei è la preda perfetta per il tritacarne degli scandali.
Avrà trovato il modo di tenere ben serrate le mura di casa di fronte alle invasioni dei barbari da scoop e da tastiera. Ad esempio, non usa i social network, perché – dichiara – «ci privano della conversazione». Ci privano della carne, ed è proprio questo il fulcro del discorso.

JENNIFER ANISTON

Shutterstock

Pur avendo detto ben poco sulla sua non-maternità, ha lasciato presagire un’esperienza dolorosa vissuta nel pieno dell’umana conflittualità. Ha mostrato un fianco scoperto che per le donne è davvero difficile mostrare; perché alla drammaticità percepita nell’intimo si aggiunge il pesante giudizio esterno.

«Non siamo cose guaste», già. La sterilità, o tutti i misteriosi casi per cui una coppia non riesce a procreare, insinuano un’ipotesi riduttiva sulla persona (che pessima espressione «donne a metà»!). Il sillogismo mentale, o le chiacchiere altrui, scivolano presto su ipotesi di “essere meno degli altri”, addirittura “inutili”. Un velo nero, falso. Chi vive questa condizione testimonia un’intensità di amore che vale la pena ascoltare.



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Madre è disponibilità ad accogliere

Un vecchio articolo scritto su Donna Moderna da Susanna Barbaglia generò un flusso gigante di lettere alla redazione: la Barbaglia condivise una riflessione sulla sua mancata maternità, mille altre donne vollero raccontare la loro storia ferita.

(…) ti ho sempre voluto chiamare Niccolò. È vero che mi piacciono i nomi antichi e italiani, impossibili da storpiare in nomignoli, ma questo l’ho capito più tardi. Vedi? Parliamo sempre di tante cose io e te eppure non ti ho mai detto che amo il tuo nome da sempre. E adesso che ci penso, non ti ho nemmeno mai detto quante volte ti ho sognato: mentre nascevi, appena nato stretto contro di me, a piedi con la tua manina dentro alla mia, mentre mi strizzavi l’occhio dietro la porta.
E tu sei proprio così, così come ti ho sognato. Ogni volta che ti vedo ti riconosco: sei il bambino che ho sempre sognato. (da Donna Moderna)

SAD WOMAN

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È una fotografia di ospitalità e custodia; questo canto d’amore mancato è già maternità. Perché parla di una donna che sta nel mondo con il cuore di madre. Una madre non la fa solo la presenza fisica di un bambino, ma semplicemente il suo dire sì alla disponibilità di accogliere. Non è un’emozione passeggera, è una predisposizione profonda. Può esserci o non esserci. Può esserci – qui sta la vertigine – e non trovare compimento nella forma della maternità, generalmente intesa.

Ci sono altre vocazioni, diverse.
Non tutte le donne desiderano fare figli e hanno il diritto di non essere giudicate male, la battaglia mediatica è prevalentemente orientata a difendere questo assunto, questa intoccabile conquista moderna. Bene. La stentorea autodeterminazione femminile non è in discussione.
Ma possiamo aprire il discorso sulla disarmata fragilità femminile?
Una donna che si confessa prostrata nella tristezza di non vedere compiuta l’attesa di una maternità che orizzonte spalanca? Forse quello di una forza pudica fatta di passi emotivi a singhiozzo.

Il desiderio di un rapporto, non volontà di possesso

Sarei ipocrita nel potermi addentrare fino in fondo in un vissuto drammatico che non mi appartiene; vedo nel volto di tante amiche, a cui manca la gioia di un figlio, un cammino a cui mi accosto in silenzio, con timore. Sono reticente ad aprire il discorso con loro, forse sbaglio.
È un vuoto che mina l’intera percezione di sé, forse fa emergere pensieri di colpa o addirittura di punizione divina. Sono tentazioni di ombra che velano la verità, cioè l’intatta dignità e fecondità di ogni persona. Facile da mettere giù a parole, altra cosa è viverlo.

C’è da riscrivere un’intera identità, da ricostruire una casa dalle fondamenta. Con troppa facilità arrivano i suggerimenti per tappare la ferita: «Che problema c’è? Adotta un figlio», «Con la procreazione assistita sicuramente ce la farai!», «Male che vada prendi un cane…».
Ecco l’inganno: tradurre un desiderio di rapporto in una volontà di possesso. L’orizzonte non è quello del collezionista a cui manca l’ultima figurina dell’album e allora si barcamena per completarlo. Trattare la presenza dei figli alla stregua di premi e traguardi ottenuti è uno degli abbagli più grandi con cui il nostro tempo fa amaramente i conti, uscendone zoppo e malconcio.

L’azzardo, che dà i brividi, è un po’ più alto: è possibile una pienezza di vita anche nel vedermi privata della maternità che desideravo?
Madre non è una “produttrice di esseri umani”, madre è una disponibilità all’ospitalità e al legame duraturo. Perciò la mancanza di questo dono è tanto più dura, lacerante, intensa. Non basta per curarla «riempirla» di altro alla svelta.

Tu che esperienza hai fatto?

Abbiamo ospitato qui su For Her storie di donne che hanno attraversato il dolore della sterilità e hanno trasformato il loro desiderio di maternità in qualcosa di diverso da quello che era nei loro sogni.


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L’adozione è senz’altro una strada, che porta un frutto di bene proprio perché non «colma un vuoto» ma perché è l’incontro di due ferite. È l’incrocio di due sguardi incompiuti che si fanno strada comune, senza dimenticare che alle spalle ci sono parole dure come “orfano” e “sterile”.
«Forse il mio scopo su questo pianeta non è quello di procreare», così Jennifer Aniston. “Forse” è la parola più bella della frase: lascia intendere un confronto aperto, una disponibilità ad allargare la prospettiva, l’inizio di una strada oltre i propri sogni astratti e a tu per tu con la propria ferita.
Questa strada, che tante donne e famiglie comuni percorrono, non è lastricata di etichette ma di esperienza. Per questo, anziché chiudere il discorso con una frase a effetto, vorrei concludere con qualche domanda aperta.
Tu che esperienza hai fatto? Non essere diventata madre ha cambiato il tuo volto di donna? È possibile fare esperienza di una fecondità di vita, attraverso e oltre il dolore di non poter metter al mondo un bambino?