Andrea Mandelli è morto giovanissimo, ha seminato nei suoi amici l’entusiasmo della vita: non cose straordinarie, ma fare ogni piccola cosa con quel ‘accada di me’ che diceva la Madonna
I figli, a un certo punto, li vedi come estranei. Carne della tua carne, certo; eppure se stessi, perciò nuovi e inaspettati. Si può imparare da un figlio? Sì, innanzitutto a disattendere i nostri calcoli di genitori e ad accogliere la loro vera paternità, figli di Dio.
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Nel leggere la storia di Andrea Mandelli mi sono immedesimata nello sguardo di sua madre Sofia, che è stata un po’ come la Madonna lungo la Via Crucis, presente eppure in disparte. Sovraffollata di domande, m’immagino.
Chi sei tu, figlio mio?
Dove stai andando?
Dove vuoi portarmi?
Ce la fai a sopportare il dolore?
Da dove ti viene la forza?
Sofia ha visto nascere Andrea, quarto dei suoi sette figli. Lo ha visto crescere nelle dinamiche affettuose e burrascose coi fratelli, accogliere la proposta cristiana, entusiasmarsi per le escursioni in montagna e molto meno per lo studio. E poi lo ha visto confrontarsi con una malattia che non dà scampo, il sarcoma di Ewing.
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Il libro che racconta la vita di Andrea Mandelli, Ti regalo la mia molla (di Giovanna Falcon, Itaca edizioni), è una raccolta di testimonianze che lascia sorpresi: il tempo davvero non si misura in anni. Morto a soli 19 anni, Andrea ha vissuto millenni e regalato secoli di gioia ha chi lo ha conosciuto.
La molla, appunto, ha la capacità di dilatarsi, e anche il cuore può farlo. Può aprirsi ad ospitare l’intero universo anche se muore giovane; può avvizzire e stare chiuso anche se campa più di cent’anni.
All’amica di sempre, Angela, lui regalò, durante l’ultimo Natale che visse, proprio la molla di una biro (che inezia, eh?) aggiungendo un biglietto:
«Sai qual è il valore di un amico? Quello di ricordare all’altro come una molla il Destino per cui è fatto. Ti regalo la mia molla».
Fosse stato mio coetaneo, credo che avrei schivato Andrea: uno di quelli sempre al centro dell’attenzione, pronto a lanciarsi in ogni iniziativa, disposto a tirar fuori tutte le questioni urgenti, a trascinare gli amici. Un coinvolgente entusiasta, ecco. Il centro della sua vita è stata la scuola e l’amicizia coi compagni di Gioventù Studentesca, stupisce con quanta profondità giovanile abbia attecchito in lui il carisma di Don Giussani: la compagnia come cammino al Destino, soprattutto. Da solo non faceva nulla, in ogni frammento di vita si metteva in rapporto con gli altri. Bellissima la trovata grazie a cui riesce a vincere le elezioni della consulta, quasi un presagio …
Pur non avendo vinto alle elezioni del consiglio d’istituto, Andrea decide di partecipare alle elezioni, indette quell’anno stesso, della consulta provinciale degli studenti. La Lista Uno aveva fatto un enorme striscione con scritto: «Lista uno fa le cose in grande». Andrea prende un fogliettino qualsiasi e scrive: «Ma le cose più piccole sono sempre le più preziose – Lista due». E attacca questo foglietto sotto la Lista uno.
Frodo, il piccolo piccolissimo hobbit della Contea deve entrare a Mordor. È sempre vertiginoso il mistero della piccolezza che regge il mondo ed estirpa il male. Sono milioni di piccoli gesti, piccole vite a tenere in piedi la «cosa buona» che è la Creazione. È un mistero altrettanto grande constatare che un ragazzo così entusiasta e generoso venga messo alla prova e il suo «sì» a Dio cresca anziché sgretolarsi.
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Come un vero e proprio tallone d’Achille, la malattia insorge con un dolore al piede e si mostra in breve tempo come un tumore osseo gravissimo.
Le cure, le lunghe degenze in ospedale, la diagnosi infausta approfondiscono il legame di paternità tra Andrea e Dio. Ne sono testimoni gli amici che lo vedono meno a scuola, ma lo sentono più forte vicino a loro. Le sue parole e la sua presenza, debilitata nel corpo ma rinvigorita nello spirito, parlano loro di un’intensità di vita:
«Andrea diceva che l’unica cosa che vale è il momento, è lì che vivi la grandezza del tuo cuore. Ciò che il Signore ti dà da vivere, che è un bene per te, è nel presente non nel progetto futuro. Non è fare cose straordinarie, ma fare ogni piccola cosa con quel ‘accada di me’ che diceva la Madonna.»
Non è il carpe diem dell’edonista che gode e usa tutto. È uno sguardo opposto all’arrivismo e alle smanie odierne che riversano sui giovani l’illusione che la felicità arriverà domani, oltre. Invece è già qui, può essere in ogni gesto che si fa ed è l’unico criterio davvero giusto: perché ad alcuni sono dati cento anni da vivere, ad altri poche ore; ma a tutti è dato un presente ed è lì che – come una molla – il nostro cuore può dilatarsi ad ospitare domande, esperienze e a dare tutto se stesso.
Se su questo sentiero riesco, un po’ indietro, a stare al passo con l’intuizione di Andrea, però poi c’è un passaggio in cui lui mi stacca definitivamente, va libero verso il traguardo … io arranco molto alle sue spalle. Eppure è questa sua frase, ostica-tosta-quasi incomprensibile, che non mi si stacca di dosso:
La pienezza della vita sta nella verginità e nella morte.
Sono parole che scrive all’amica Angela, e poi nella sua ultima lettera. Cos’hanno in comune la verginità e la morte? Soprattutto: cosa c’entrano con la pienezza?
La verginità e la morte sono cose vuote, sono l’io che si sveste della sua presunzione di «riempirsi da solo»; sono quindi il massimo della disponibilità, perché solo un vaso vuoto può diventare pieno. Il cammino paradossale, allora, è quello di svuotarci di tutto ciò che è egoisticamente nostro e lasciare che altre mani riempiano con un contenuto più adeguato alla vera felicità il nostro spazio di vita.
Forse alla fine della sua vita Andrea era pieno di metastasi, un corpo che fisicamente cedeva cellule a un estraneo aggressore. Che questa invasione fosse un’incursione di Dio lui non solo lo ha accettato, ma accolto come benedizione; il frutto è ricaduto generoso su tutti quelli che gli erano accanto e ora, nel libro dedicato all’amico, raccontano quanta pienezza di vita hanno avuto in dono da lui.
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Quotidianamente sento i miei figli lamentarsi; un po’ di anni fa, quando insegnavo, erano degli studenti le lamentele che sentivo. Mai contenti, sempre a sbuffare. Non c’è niente di interessante. Che noia. Non vedo l’ora di andarmene, di avere il motorino, di fare quello che voglio – dicevano e dicono.
D’ora in poi mi propongo di raccontare a tutti questi pigri e ciechi bradipi un episodio altamente insignificante, e perciò prezioso, della vita di Andrea: una sera, quando già era malato, si offrì di fare il babysitter ai fratelli di un’amica, affinché lei potesse andare a fare una serata fuori coi suoi amici.
Non si scappa: un adolescente così o è scemo o ha qualcosa di interessante da dire.
O si comporta da stupido o ha gli occhi giusti per godere anche di ciò che tutti giudicano tempo sprecato.
C’è chi, quando scopre di avere una malattia grave, decide di fare il giro del mondo e fare le esperienze più estreme. Ci sta.
C’è chi, come Andrea, alza l’asticella dell’azzardo: io scommetto che due ore date per la felicità di un’amica valgono tutto l’oro del mondo, e che il bene di cui si nutre la mia anima non sia solo alle Galapagos o alle Hawaii, ma qui nel piagnisteo di qualche piccola peste che non vuole andare a letto.