In caso di depressione materna l’effetto traumatico sui figli è più forte; la situazione migliora se la famiglia non è isolata, ma ha il supporto di una compagnia sociale
Cersei Lannister è sinonimo di spregiudicatezza, spavalderia, ostentazione, arroganza; è la regina più cinica del piccolo schermo e idolo dei fan de Il trono di spade. La interpreta Lena Headey che nella vita è una donna diversissima da Cersei. Di recente ha partecipato al programma Running Wild della NBC con Bear Grylls e seduta di fronte a un fuoco da campo ha tirato fuori una battuta azzeccatissima sulla depressione:
Winston Churcill era solito dire che la depressione è un cane nero che ti sta sempre seduto accanto. Spesso è così anche per me. (da Dailymail)
Il cane è simbolo di fedeltà, il nero è simbolo di buio. La depressione è questa fedeltà malata che il buio riserva alle sue vittime: ci si sente «accompagnati», assiduamente braccati da un’ombra che sta lì, accanto a te – terribile nel suo silenzio.
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La Headey, conoscendo il veleno di questa malattia fin da quando aveva 15 anni, aveva già pubblicamente rotto il silenzio su Twitter, aggiungendo alle molte reazioni di sostegno dei fans una risposta illuminante:
Ansia. Depressione. È qualcosa di reale e chimico. È anche spirituale … statemi tutti vicini.
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Davvero, in così poche parole ha detto tanto. Si può immaginare, dietro questi flash veloci, una battaglia dura come quella che tantissimi combattono lontano dai riflettori e dalla celebrità. Ci occupiamo spesso di depressione perché è il male più diffuso e invalidante del nostro tempo, una patologia dai confini incerti eppure dagli effetti devastanti. Ce ne occupiamo parlando di donne perché colpisce di più il sesso femminile, può scatenarsi a causa della maternità e incide su di essa.
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Uno studio pubblicato a febbraio del 2018 ha messo in luce alcuni aspetti su cui è bene soffermarsi:
« […] uno stato depressivo anche lieve della madre si traduce facilmente in un atteggiamento educativo duro e iper-reattivo nei confronti dei loro bambini piccoli, che in seguito può causare problemi comportamentali nei figli. Se a essere colpito da depressione è invece il padre, nonostante l’atteggiamento duro e iper-reattivo manifestato anche da lui, in genere il bambino non ne risente allo stesso modo sul piano comportamentale.
Gli effetti della depressione materna sono risultati fortemente attutiti o annullati se la famiglia dispone di una ampia rete di supporto sociale» (da Parental Depression, Overreactive Parenting)
Ricapitoliamo i due contenuti importanti. Primo: non è vero che il padre e la madre sono due categorie astratte e interscambiabili, in caso di depressione materna l’effetto traumatico sui figli è più forte. Non è un atto d’accusa, è una presa di coscienza e, se ce ne fosse bisogno, una conferma della profondità viscerale del legame mamma-bambino.
Secondo: la presenza di un supporto sociale contribuisce a migliorare la situazione. Se la famiglia non è isolata, ma fa parte di una compagnia umana con cui condivide la quotidianità così come gli eventi decisivi, le metastasi della depressione vengono arginate. Non curate! Non significa, infatti, che se uno ha degli amici e soffre di disturbi di ansia e infelicità cronici non deve farsi curare. La corretta terapia medica, e anche farmacologica, è essenziale.
Non è di nostra pertinenza scendere nei dettagli degli aspetti clinici della depressione.
Possiamo però dare un nome a tutti i piccoli semi umani di bene che contribuiscono ad affiancare il percorso medico di guarigione. «È qualcosa di reale, chimico e anche spirituale», dice Lena Headey, e proprio la realtà, unita alla nostra struttura corporea e unita allo spirito offrono una grande terapia di supporto.
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Non scindere l’unità corpo-spirito-mondo è vitale per una percezione a fuoco della persona.
Guardare la realtà è un passo grande da fare per la persona depressa che, tendenzialmente, è curva su di sé e protesa ad ascoltare solo il borbottio della propria testa. Questo è il motivo per cui nell’affrontare questo tema chiamiamo in causa i personaggi famosi che confessano le proprie fragilità: condividere la sofferenza è il passaggio più importante.Lo ha fatto anche Serena Williams, la tennista americana dal fisico pazzesco per tenacia, forza, aggressività. L’aggettivo «potente» sembra inventato per lei.
Eppure, diventando madre ha dichiarato di essere andata in tilt mentalmente, addirittura una volta per la perdita di un biberon. È un gesto generoso condividere una debolezza così estrema, che potrebbe suscitare persino derisione. Ma non è così: chi ha familiarità con mamme ferite dalla depressione post parto sa che le piccolezze si trasformano in macigni.
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La deformazione della normalità è uno dei doni più terribili di questa patologia.
Come la si scaccia?
Ho trovato uno spunto bellissimo nel commento di una mamma che rispondeva ad un’altra preoccupata di come la sua depressione condizionasse i figli in modo permanente:
[…] quando riesco ad uscire di casa, magari a fatica, coi capelli spettinati o la giacca sbagliata, e cammino con il piccolo: è come se la città mi aiutasse ad accudire il bambino perché cattura il suo interesse – bastano un cantiere, il fiume, un cortile mai visto – ed io sull’onda del suo interesse trovo parole, storie, pensieri, canzoni che a casa non mi verrebbero. (da Non togliermi il sorriso)
Quanta sapienza, forse innata e inconsapevole, in questa testimonianza. Va decantata, proviamoci. È evidente – ma non disperante – che i figli subiscano anche in modo forte la depressione materna. Per esperienza personale, posso dire che nel tempo ho trovato del buono nell’aver patito sulla mia pelle di bambina tutte le ferite aperte di mia madre; lei ha temuto di avermi fatto soffrire troppo, ma io le ricordo sempre che, oltre alla sua fragilità ha anche condiviso l’ipotesi complessiva di un senso di vita buono.
Abbiamo lottato insieme, e diventando adulta mi sono ritrovata – forse poco spensierata – ma molto corazzata nello scommettere che il male è una prova e non un inferno.
Il suggerimento della mamma citata propone però qualcosa in più: il gesto di uscire di casa, lasciare che la realtà e il figlio siano «padroni» della situazione, seguire le suggestioni dell’esterno e farne una storia nuova. Ecco, è un piano fantastico!
Non c’è modo migliore di centrare il proprio io che mettendolo da parte; la depressione è una convulsa bulimia di ascolto di sé che degenera in un’esplosione interna.
Abbandonarsi alla corrente, cioè lasciarsi guidare nella quotidianità da qualcuno che non siamo noi (fosse anche solo rispondere sì alla domanda «mamma, andiamo a prendere un gelato?») è cominciare a rimettere le cose al loro posto, sconfiggere la deformazione con la Creazione: perché, sì!, è Dio il padrone del mondo e Lui ci chiama a partecipare a un disegno che la nostra mente non può stipare, ma a cui può spalancarsi.