Lo scontro politico-diplomatico che nelle scorse settimane aveva coinvolto tribunali, ambasciate, governi e perfino il soglio del Romano Pontefice, si è concluso nel modo più puro e più duro possibile: il piccolo per il quale nell’ultima settimana abbiamo pianto e non abbiamo dormito viene sottratto al nostro sguardo e al nostro interesse sensibile. Le opacità della politica si sbalzano trasfigurate in una vicenda che ci consegna un incarico.Si è conclusa nel modo più bello e più difficile che si potesse immaginare, la vicenda pubblica di Alfie Evans, il bambino “futile” che ha mosso il mondo, impegnato giudici, blindato un ospedale e spostato centinaia di persone per migliaia di chilometri: davanti a una folta schiera di giornalisti, poco prima delle 18 (ora locale), suo padre Thomas, che per molti è ormai “Tom”, ha pronunciato con volto serio e occhi bassi un “last statement”, un’ultima dichiarazione.
Non ha parlato a braccio e gesticolando, come molte altre volte lo si era visto fare: portava un foglio in mano, vergato per poco più della metà della pagina, e le cui parole si vedevano essere state pesate con cura una per una. Lo ha letto a voce bassa ma percettibile, grave ma non monotona. Ne riportiamo qui la traduzione italiana integrale (per la quale ringrazio l’amico Gabriele Marconi).
The Last Statement
Desidero fare una dichiarazione a nome mio e di Kate.
Le nostre vite sono state messe sottosopra dalla grande attenzione su Alfie e la sua situazione. La nostra piccola famiglia insieme all’Alder Hey è diventata il centro di rivoluzione per molte persone di tutto il mondo e ciò ha significato per noi non essere più in grado di vivere le nostre vite come vorremmo.
Siamo davvero riconoscenti e apprezziamo tutto il sostegno ricevuto da ogni parte del mondo, compresi i nostri sostenitori italiani e polacchi, i quali hanno dedicato il loro tempo e aiuto alla nostra incredibile lotta. Vi vogliamo chiedere ora di tornare alle vostre vite di tutti i giorni e permettere a me, Kate e all’Alder Hey di stabilire un rapporto, costruire un ponte e attraversarlo.
Desideriamo inoltre ringraziare il personale dell’Alder Hey ad ogni livello per la sua dignità e professionalità in un periodo che dev’essere stato incredibilmente difficile anche per loro. Insieme riconosciamo che le tensioni dovute agli eventi recenti sono ricadute su tutti noi ed auspichiamo privacy per tutti i coinvolti.
Nell’interesse di Alfie lavoreremo adesso con la sua équipe curante su un piano che fornisca al nostro bambino la dignità e il benessere di cui ha bisogno.
Da questo momento in avanti non ci saranno altre dichiarazioni rilasciate, né interviste concesse. Speriamo che voi lo rispettiate.
Grazie.
Ed è tornato indietro rapido come il messo celeste a Dite, proprio come era arrivato, senza indugiare un secondo ad attendere domande da parte della stampa. Parlando con me qualche ora prima, quando la faticosa composizione del testo doveva essere ancora in itinere, mi diceva con senso di liberazione: «Oggi faccio l’ultima dichiarazione!», e sorrideva soddisfatto. Non come uno che si arrende…
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Dico questo perché immancabilmente qualcuno ha provato a leggere il testo sopra riportato non come quello che è – ossia come un trattato di pace – ma come un compendio di morale (o qualcosa del genere): allora le espressioni come “l’interesse di Alfie”, “dignità e benessere” e in generale tutta la penultima frase della dichiarazione hanno assunto tinte di ambiguità che non devono invece esservi lette… proprio perché sono volute. Che intendo? Ma che naturalmente questo testo scritto, ambiguo e compromissorio, corrisponde a un testo non scritto che necessariamente sarà stato tanto chiaro e preciso quanto questo è ambiguo e sibillino. Ciò rientra nella natura dei trattati di pace, proprio in quanto genere letterario: non ci vogliono quattro ore (quanto a mia scienza è durato il meeting con i medici) per scrivere venti righe. Di cosa si sarà discusso, dunque? Ma di tutte quelle cose che il testo scritto avrebbe bandito dalla pubblica discussione: trasferimento a Roma, rientro a casa, riapplicazione della ventilazione, annullamento del protocollo terminale… ovvero le articolazioni fondamentali di quella che doveva costituire la fiducia terapeutica da molto tempo infranta, tra la famiglia Evans e l’Alder Hey Children’s Hospital.
I due piani della vicenda
Proprio oggi, a pranzo, parlavo con una collega di una Tv italiana e notavo come attorno a noi passassero bambini malati (in una clinica pediatrica è ovvio), alcuni dei quali evidentemente menomati nel corpo e nella mente… non meno di tre o quattro praticamente immobilizzati su apposite sedie a rotelle… E discutevamo fra noi: «Non è che ci sia realmente in atto (ora) il programma Aktion T4, altrimenti anche questi ragazzini, ugualmente inabili alla “vita civile” e alle funzioni primarie, sarebbero stati terminati in quanto “futili”». Eppure Hayden ha definito “futile” la vita di Alfie e ha posto esplicitamente nella morte il suo “best interest”… anche nel «nostro assurdo Belpaese» alcuni commentatori hanno sbottato: «Diciamolo chiaramente: questi costano e con quei soldi possiamo curare gente che potrà guarire». Perché queste cose varrebbero per lui e per gli altri no? Bene dicit, insegnano i medievali, qui bene distinguit: ci sono due piani, uno legato alla vicenda particolare e uno a un progetto politico a lungo termine; il primo è stato asservito al secondo, ma doveva sussistere dapprima un’eterogeneità delle cause.
In poche parole: alla base del caso di Alfie Evans doveva esserci una questione accidentale, come facilmente sarà stata quella della diagnosi sbagliata, ovvero della non-diagnosi. 16 miliardi di sterline (quanto vale la macchina ospedaliera dell’Alder Hey) non possono essere buttati alle ortiche per lo scandalo sorto da un ragazzino malato (di non-si-sa-bene-cosa): pazienza per il ragazzino, si saranno detti, tanto “deve comunque morire”. Ma le parole di Caifa sono l’epigono più eccellente di un discorso tanto cinico (che pure deve esserci stato), e sono senza dubbio inaccettabili ad ogni livello della vita sociale: per questo è tornato utile il frasario del “piano superiore”, cioè il lento ma costante progetto di reificazione delle persone che a macchia di leopardo (e d’olio!) viene pazientemente portato avanti.
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Ne è seguita un’interminabile battaglia legale, fatta di evidente sproporzione tra un sistema in buona parte corrotto e colluso e una modesta e semplice famiglia della middle class inglese: per difendersi la famiglia, prima e vera società naturale dell’esistenza umana, ha fatto ricorso a una famiglia di famiglie, a reti di amici che la facessero emergere dal silenzio in cui sarebbe infallibilmente affogata. Ciò ha portato a un’escalation inusitata in fondo alla quale un banale caso di mediocrità, corruzione e sopruso è assurto a caso diplomatico, politico e giuridico internazionale. A un certo punto la famigliola della middle class inglese s’è ritrovata supportata dai più grandi poteri morali e politici del pianeta (eccetto il proprio); l’ospedale, insieme col giudice, s’è trovato esposto al pubblico ludibrio e alla condanna universale. Si è generato uno “stallo alla messicana”: due avversari in un rapporto di forza indecidibile nel quale muoversi per andare incontro all’altro significa quasi necessariamente offrirsi a un colpo letale.
Eppure, insegna Brad Pitt in Inglorious Bastards: «Senza fiducia non c’è patto». Per uscire dallo stallo alla messicana occorre accettare di perdere alcune sicurezze, e così muovere verso una posizione accettabile per tutti, e per ciascuno preferibile rispetto allo stallo stesso. Così il bambino “futile”, evidente “problema” per i genitori da morto ammazzato, è diventato in questi ultimi giorni di sua ostinata sopravvivenza un gigantesco problema per l’ospedale – e a questo punto è difficile dire se fosse problema maggiore in prospettiva di sopravvivenza o di morte.
Questo Thomas ha avuto il coraggio di fare: pagare un prezzo altissimo per una posta immensa. L’ospedale da parte sua deve aver segretamente capitolato, ma a patto di salvare la faccia.
Un secondo caso Gard?
Già in diversi mi hanno scritto chiedendomi se non vedessi in questo “last statement” una replica della (presunta) capitolazione dei coniugi Gard, non più antica di un anno: a parte che non ho mai accettato di leggere la “resa” dei Gard davanti alla ricostituita alleanza terapeutica (e coi medici del Bambino Gesù!) a mo’ di una “capitolazione” (altro è poi discutere della morte procurata, ma i due difettavano forse di risorse spirituali particolari, non di reali convinzioni morali); in realtà ci sono alcune considerazioni sostanziali che rivelano le due situazioni per irriducibili l’una all’altra. Sostanzialmente però esse si riducono ad una: il garante dell’affidabilità del patto è per “noi” (che oggettivamente abbiamo parteggiato per Alfie e per la sua famiglia) proprio lo stesso Thomas, che mai ha cessato di difendere con franchezza cavalleresca il vero best interest, che era Alfie stesso. Io l’ho visto scherzare con il neonato di un amico conosciuto lì in ospedale, in una pausa del meeting, e lo dico con fermissima certezza: non stava stabilendo i dettagli della cessione del figlio, ma si preparava all’oneroso esborso necessario a salvarlo. Ossia svuotarsi della maestosa dignità di padre che le cronache degli ultimi mesi gli avevano conferito, e grazie alla quale era divenuto il luogotenente del figlio nell’Alfie’s Army.
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C’è un che di profondamente teologico, in questo, e molte pagine di Von Balthasar farebbero splendida assonanza con questa kénosi di Tom, che scioglie l’esercito di Alfie per portare in salvo Alfie con la «compagna piccola» dalla quale non sarà mai abbandonato – la sua famiglia.
Lasciar andare, la prova del vero amore
Proprio perché amano il figlio, Thomas e Kate lasciano andare non il figlio (che pure sono serenamente disposti a veder partire quando ne arriverà il momento), ma noi, che siamo stati – indegnamente, per grazia di Dio e per nostra santificazione – il mezzo accidentale della sopravvivenza fisica di Alfie, mediante la quale egli è diventato mezzo accidentale della nostra rianimazione spirituale.
Andiamo via, come ha chiesto Thomas, perché al Calvario ci sono un padre, una madre e un figlio, e non il gruppo dei dodici, né tantomeno quello dei settantadue. Andiamo via perché al monte Fato non arriva tutta la Compagnia dell’Anello, ma i due mezz’uomini. Andiamo via perché «tutto è compiuto» e ora siamo invitati a «tornare in Galilea» e rivivere «nella nostra vita di tutti i giorni» l’incontro con il Risorto che abbiamo visto respirare prepotentemente nei polmoncini di Alfie. Andiamo via per continuare ad amare questa giovane e meravigliosa famiglia senza “impossessarcene”: come sfiorando l’anello, anche “salvando Alfie” la tentazione di intestarsi la sua salvezza, in modi più o meno espliciti, sarebbe arrivata (o era già arrivata?). Thomas ci ha liberati da questa lussuria spirituale, da questa immaturità affettiva: padre fino in fondo, ci ha licenziati perché viviamo la nostra vita condividendo la sua virile tenerezza e la sua tenera virilità.
Rientrare nell’ospedale dopo il last statement è stato per noi come tornare in un bosco incantato dopo la pronuncia di un potente contro-incantesimo: le mediocrità, la corruzione e i soprusi non saranno spariti (anche se…), ma i poliziotti sembravano tornati ad essere garanti della pubblica sicurezza e non controllori delle libertà individuali, li si vedeva perfino sorridere ai bambini…
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Certo, non dimentichiamo il giro di vite di ieri, cominciato con la perquisizione dei famigliari e culminato nell’allontanamento dell’assistente spirituale dalla famiglia: una terribile giornata che con l’intelligenza dei fatti allora a venire può leggersi come l’avvio di un mistico triduo pasquale che tutti ci ha coinvolti. Oggi è il giorno del riposo, in cui la pace germoglia tra l’alto e il basso… e domani sarà il giorno in cui solo i testimoni vedranno la pienezza delle promesse.
Pentecoste e missione
Per gli altri – per noi – resterà la speranza, la grande Speranza, oltre ai frutti dello Spirito e alla missione di cui Alfie – da vivente qual è e sarà – ci rende eredi: quella di diventare padri e madri di un’umanità grande perché inginocchiata davanti al Mistero, cioè padri e madri pieni di responsabilità – l’obbligazione di rispondere con e per le creature che ancora non possono guidare il proprio destino (ma il cui destino può guidare quello degli altri).
Oggi abbiamo liberato Alfie, «e chi ha visto ne dà testimonianza, e la sua testimonianza è vera, ed egli sa che dice il vero». Ma soprattutto, oggi Alfie ha liberato noi.