La distinzione tra peccati veniali e mortali è spesso attaccata, ma raramente compresa – anche (come accade spesso) da quelli che si propongono come suoi strenui apologeti. Proviamo a farcela spiegare dalla guida sapiente di padre Bernard Häring, tra i più autorevoli teologi morali del XX secolo, oltre che uno tra i più fini orefici della categoria di “opzione fondamentale”.
Poiché più volte, nel recente passato, mi sono trovato a usare la categoria di “peccato mortale”, più di qualcuno mi ha chiesto di spiegare meglio come si faccia a capire quando un peccato è mortale e quando no: se sia solo la materia, se sia solo l’intenzione, se sia la forma, se sia la coscienza…
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E già elencando questa serie di parole, che per diversi fra voi saranno probabilmente puri flatus vocis, sento la voce di quel buon vecchio diavolo di Voltaire che mi rimprovera dall’alto del suo Dictionnaire. Alla voce “teologo” si legge infatti, fra l’altro:
Meno teologia e più morale li avrebbe resi venerabili agli occhi del popolo e dei re; rendendo invece pubbliche le loro dispute, si sono resi maestri di quei medesimi popoli che volevano guidare. Perché cos’è che è accaduto? Dal momento che quelle infelici dispute hanno diviso i cristiani, gli interessi e la politica si sono necessariamente infiltrati. Poiché ogni Stato (anche in tempi di ignoranza) nutriva i proprî interessi, nessuna Chiesa pensa esattamente come un’altra, e parecchie sono fra loro diametralmente opposte. Così un dottore di Stoccolma non deve pensare come un dottore di Ginevra; l’anglicano deve, poiché sta ad Oxford, differire dall’uno e dall’altro; non è permesso a colui che riceve la berretta dottorale a Parigi di sostenere certe opinioni che il dottore di Roma non può abbandonare. Gli ordini religiosi, gelosi gli uni degli altri, si sono divisi. Un frate cappuccino deve credere all’Immacolata Concezione: un domenicano è obbligato a rigettarla, e passa per eretico agli occhi del francescano. L’esprit de géométrie, che si è tanto diffuso in Europa, ha finito per avvilire la teologia. I veri filosofi non hanno potuto impedirsi di mostrare il più profondo disprezzo per dispute chimeriche nelle quali non sono mai stati definiti i termini, e che si svolgono con parole tanto inintelligibili quanto i loro contenuti. Tra i dottori stessi se ne trovano molti veramente dotti che hanno pietà della loro professione; essi sono come gli auguri di cui Cicerone dice che non potevano incontrarsi senza mettersi a ridere.
“Meno teologia e più morale”, questa è bella… quando si pensa invece che se c’è una cosa che gli uomini di oggi non vogliono sentire è proprio come dovrebbero vivere. Ho però l’impressione – e i numeri delle letture di alcuni nostri pezzi lo confermano – che in realtà ci sia proprio questo inconfessabile desiderio di paternità, nel subconscio della nostra epoca: che è ribelle come un’adolescente, è vero, ma che pure nel suo andarsi a cercare novità spirituali in qualunque posto (tranne che nella Chiesa) confessa costantemente perlomeno a sé stessa che di una via ha bisogno. Tutti, in realtà, ne abbiamo profondo bisogno.
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Proprio per questo sant’Agostino, che di ribellioni e di confessioni era esperto come nessun altro, commentando Gv 14, 6 disse, fra l’altro:
Se lo ami, seguilo. Tu dici: Lo amo, ma per quale via devo seguirlo? Se il Signore tuo Dio ti avesse detto: Io sono la verità e la vita, tu, desiderando la verità e bramando la vita, cercheresti di sicuro la via per arrivare all’una e all’altra. Diresti a te stesso: gran cosa è la verità, gran bene è la vita: oh! se fosse possibile all’anima mia trovare il mezzo per arrivarci!
Tu cerchi la via? Ascolta il Signore che ti dice in primo luogo: Io sono la via. Prima di dirti dove devi andare, ha premesso per dove devi passare: «Io sono – disse – la via»! La via per arrivare dove? Alla verità e alla vita. Prima ti indica la via da prendere, poi il termine dove vuoi arrivare. «Io sono la via, Io sono la verità, Io sono la vita». Rimanendo presso il Padre, era verità e vita; rivestendosi della nostra carne, è diventato la via.
Non ti vien detto: devi affaticarti a cercare la via per arrivare alla verità e alla vita; non ti vien detto questo. Pigro, alzati! La via stessa è venuta a te e ti ha svegliato dal sonno, se pure ti ha svegliato. Alzati e cammina!
Forse tu cerchi di camminare, ma non puoi perché ti dolgono i piedi. Per qual motivo ti dolgono? Perché hanno dovuto percorrere i duri sentieri imposti dai tuoi tirannici egoismi? Ma il Verbo di Dio ha guarito anche gli zoppi.
Tu replichi: Sì, ho i piedi sani, ma non vedo la strada. Ebbene, sappi che egli ha illuminato perfino i ciechi.
C’è tutta la psicologia del peccato e della penitenza, in queste poche righe: tra l’una e l’altra cosa sta la lunga indolenza della coscienza fiaccata dal male. Altra cosa di cui tutti facciamo esperienza. E in questa dolorosa stagnazione del cuore che cosa può mai la teologia? Poco e nulla, come mostra Agostino stesso: la teologia parla alla mente dell’uomo che non si ostina nel male, che chiede di capire come possa rialzarsi. «Ma quando avverrà – diceva Erasmo nell’Introduzione ai suoi memorabili Adagia – che tutta questa mole di carta possa insegnarci a vivere bene?».
Questa è la grande sfida che, sola, segna la distanza tra il successo della teologia (Tommaso ricorda che di scienza pratica, non teoretica, si tratta) e il suo fallimento. Qualcuno fra quanti di voi hanno letto i miei ultimi articoli qui su Aleteia avrà certamente notato il mio ricorrente riferirmi alla categoria di “opzione fondamentale”. Né sarà mancato – presumo – chi tra quelli sarà tornato con la mente al 1993 e alla preziosa enciclica gianpaolina Veritatis Splendor. In quell’imprescindibile documento di morale fondamentale il Papa polacco dedicava ben cinque numeri (65-70, per 14 paragrafi in tutto!) a discutere della dottrina detta “dell’opzione fondamentale”, che per molti moralisti moderni è lo strumento fondamentale della vita morale. Il complesso e dettagliato giudizio che Giovanni Paolo II volle esprimere su questo ganglo essenziale della vita umana viene talvolta ridotto a una secca condanna, estrapolando da Vertitatis splendor alcuni passaggi come questo:
Le considerazioni intorno all’opzione fondamentale hanno indotto, come abbiamo ora notato, alcuni teologi a sottoporre a profonda revisione anche la distinzione tradizionale tra i peccati mortali e i peccati veniali. Essi sottolineano che l’opposizione alla legge di Dio, che causa la perdita della grazia santificante — e, nel caso di morte in un simile stato di peccato, l’eterna condanna —, può essere soltanto il frutto di un atto che coinvolge la persona nella sua totalità, cioè un atto di opzione fondamentale. Secondo questi teologi il peccato mortale, che separa l’uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto di Dio, compiuto ad un livello della libertà non identificabile con un atto di scelta né attingibile con consapevolezza riflessa. In questo senso — aggiungono — è difficile, almeno psicologicamente, accettare il fatto che un cristiano, che vuole rimanere unito a Gesù Cristo e alla sua Chiesa, possa così facilmente e ripetutamente commettere peccati mortali, come indicherebbe, a volte, la «materia» stessa dei suoi atti. Parimenti sarebbe difficile accettare che l’uomo sia capace, in un breve lasso di tempo, di spezzare radicalmente il legame di comunione con Dio e, successivamente, di convertirsi a lui mediante la sincera penitenza. Occorre dunque — si dice — misurare la gravità del peccato piuttosto dal grado di impegno della libertà della persona che compie un atto che non dalla materia di tale atto.
Veritatis Splendor 69
Ed è sintomatico che Giovanni Paolo II si richiamasse all’esortazione apostolica postsinodale Reconciliatio et pœnitentia, del 1984, che raccoglieva e proponeva alla Chiesa i frutti della consultazione sinodale dell’anno prima. Avveniva quindi dieci anni prima dell’enciclica (così la Tradizione si sviluppa approfondendo il Magistero). Ebbene, in quel documento lo stesso Papa polacco scriveva:
[…] si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» – come oggi si suol dire – contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell’amore di Dio verso l’umanità e tutta la creazione: l’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L’orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l’«opzione fondamentale», intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale.
Se è da apprezzare ogni tentativo sincero e prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del peccato, la Chiesa però ha il dovere di ricordare a tutti gli studiosi di questa materia la necessità, da una parte, di essere fedeli alla parola di Dio che ci istruisce anche sul peccato, e il rischio, dall’altra, che si corre di contribuire ad attenuare ancora di più, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.
Reconciliatio et pœnitentia 17
Appare chiaro, quindi, anche senza approfondire nel dettaglio (che forse non interesserà a tutti), come l’intento di Papa Wojtyła non fosse quello di castrare quell’importante categoria teologica, bensì quello di incanalarne la fecondità teoretica potandone – per così dire – i polloni cancerosi.
Né più né meno di quanto ci si attende da un Papa. Il quale infatti spiegava:
Non c’è dubbio che la dottrina morale cristiana, nelle sue stesse radici bibliche, riconosce la specifica importanza di una scelta fondamentale che qualifica la vita morale e che impegna la libertà a livello radicale di fronte a Dio. Si tratta della scelta della fede, dell’obbedienza della fede (cf Rm 16,26), «con la quale l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà”«.112 Questa fede, che «opera mediante la carità» (Gal 5,6), proviene dal centro dell’uomo, dal suo «cuore» (cf Rm 10,10), e da qui è chiamata a fruttificare nelle opere (cf Mt 12,33-35; Lc 6,43-45; Rm 8,5-8; Gal 5, 22). Nel Decalogo si trova, in capo ai diversi comandamenti, la clausola fondamentale: «Io sono il Signore, tuo Dio…» (Es 20,2) che, imprimendo il senso originale alle molteplici e varie prescrizioni particolari, assicura alla morale dell’Alleanza una fisionomia di globalità, di unità e di profondità. La scelta fondamentale di Israele riguarda allora il comandamento fondamentale (cf Gs 24,14-25; Es 19,3-8; Mic 6,8). Anche la morale della Nuova Alleanza è dominata dall’appello fondamentale di Gesù alla sua «sequela» — così anche al giovane egli dice: «Se vuoi essere perfetto… vieni e seguimi» (Mt 19,21) —: a tale appello il discepolo risponde con una decisione e scelta radicale. Le parabole evangeliche del tesoro e della perla preziosa, per la quale si vende tutto ciò che si possiede, sono immagini eloquenti ed efficaci del carattere radicale e incondizionato della scelta che il Regno di Dio esige. La radicalità della scelta di seguire Gesù è meravigliosamente espressa nelle sue parole: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,35).
L’appello di Gesù «vieni e seguimi» segna la massima esaltazione possibile della libertà dell’uomo e, nello stesso tempo, attesta la verità e l’obbligazione di atti di fede e di decisioni che si possono dire di opzione fondamentale. Analoga esaltazione della libertà umana troviamo nelle parole di san Paolo: «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5, 13). Ma l’Apostolo immediatamente aggiunge un grave monito: «Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne». In questo monito riecheggiano le sue precedenti parole: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). L’apostolo Paolo ci invita alla vigilanza: la libertà è sempre insidiata dalla schiavitù. Ed è proprio questo il caso di un atto di fede — nel senso di un’opzione fondamentale — che viene dissociato dalla scelta degli atti particolari, secondo le tendenze sopra ricordate.
Veritatis Splendor 66
L’opzione fondamentale, dunque, è “una novità” soltanto in riferimento all’ausilio delle scienze umane, quali la psicologia e la sociologia, ma nel suo contenuto rispecchia profondamente l’essenza della dottrina morale di ogni teologia cristiana: in tal senso il fissismo deterministico che fa del “peccato mortale” una qualunque entità intramondana, invece che un fenomeno della vita interiore, è uguale e contrario all’ostinato errore dei teologi (tra cui anche qualche cardinale) che vorrebbero appunto escludere dal panorama della morale il peccato mortale. E poi scrivono centinaia di pagine sul titolo cristologico di “redentore”, che pure è così semplice… ovvero sarebbe semplice, se non si togliesse di mezzo il peccato.
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Viceversa, qualche giorno fa proprio qui scrivevo:
C’è chi pensa che i peccati e gli atti virtuosi debbano comporsi in una sorta di somma algebrica, ove dato un valore a ogni atto si spera (o si scommette) che il risultato sia maggiore di 0.
Ecco, no: la morale delle somme algebriche è l’estremo sbagliato (e pericoloso) della fazione ecclesiale che vorrebbe passare per “integrista”. In realtà nell’idolatrare il criterio di discernimento asettico che autonomamente si sono dati non solo si imprigionano a «un dio che non può salvare» (Is 45, 20), ma si allontanano da ogni esperienza umana, perché l’uomo l’ha fatto appunto l’unico «Dio giusto e salvatore» (Is 45, 21).
Ma per non tornare a ripetere me stesso, voglio portarvi oggi le parole di un grande moralista del XX secolo, uno di quelli che sfruttò meglio e cesellò più finemente la categoria di “opzione fondamentale”. Mi riferisco al redentorista tedesco Bernard Häring. Sì, lo so che fu inquisito dal Sant’Uffizio negli ultimi anni di Paolo VI (quando ancora la CdF non si chiamava col suo nome “riformato”): non si deve dimenticare, però, che fu lo stesso Papa Montini a chiedere a Häring di predicargli gli esercizi, nel 1964 (era la prima volta – in tempi moderni – che si chiamava un ecclesiastico non italiano per questo compito!), e che fu lo stesso rigorosissimo Giovanni Paolo II, poco dopo la sua elezione pontificia, a ordinare l’archiviazione della cartella che lo riguardava. In realtà non si trovò mai qualcosa di eretico, in Häring, ma neanche di temerario, ed è per questo che volentieri ne condivido alcuni passaggi.
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Nel primo volume della sua grande opera, Liberi e fedeli in Cristo, il Redentorista dedicava l’intero capitolo V (199-267) all’illustrazione dell’opzione fondamentale, con annessi e connessi: è una lettura che consiglio senz’altro a chi voglia approfondire. Per oggi c’interessa soffermarci al paragrafo IX, dedicato a “l’opzione fondamentale contro Dio e contro il bene”. Scriveva padre Häring:
Il peccato, nel senso pienamente malizioso, è un allontanarsi da Dio che distrugge l’opzione fondamentale rivolta all’impegno buono di se stesso per il servizio di Dio e per l’amore del prossimo. Dobbiamo tener presente che è impossibile distinguere semplicemente fra peccati seri e peccati non seri. Per sua stessa natura il peccato è sempre serio. I peccati veniali che a poco a poco conducono all’estremo pericolo di un peccato mortale (opzione fondamentale contro Dio) devono essere considerati come del tutto seri.
Bernard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I, 256-257
Come si vede, un pensiero tutt’altro che lassista: lungi dal dichiarare l’inesistenza dei peccati mortali, mette in guardia anche dal sottostimare i peccati veniali. E prosegue:
C’è poi un’importante differenza fra il peccato veniale grave di una persona che è ancora nello stato di grazia e qualsiasi peccato grave di chi ha già abbandonato l’amicizia con Dio. Nel nemico di Dio c’è quel veleno pestifero della sua opzione fondamentale di inimicizia, il quale contagia ogni peccato, mentre la persona la cui opzione fondamentale è per l’amicizia con Dio non porta impresso questo marchio di inimicizia nella profondità del suo essere. Ad ogni modo, se in una persona c’è qualcosa di malato ed essa non si preoccupa di guarire, tale disinteresse per la salute può diventare la causa della rovina finale. La stessa cosa capita con il peccato veniale, specialmente con il peccato veniale grave.
Ibid.
Penso che le parole di Häring si facciano interessanti (ognuno di noi può ritrovarsi in queste dinamiche, se abbiamo la coscienza anche solo minimamente allenata), e in molti si staranno chiedendo cosa sia mai codesto “peccato veniale grave”… Pazienza e sarà chiaro: Häring si dà ora a spiegare come la dottrina tomista della grazia non preveda che lo stato di grazia abituale si perda facilmente (Tommaso d’Aquino, De veritate q. 27, a. 1 ad 9).
Secondo san Tommaso la grazia abituale conferisce una così forte inclinazione basilare verso il bene, che non è facile che un singolo atto la distrugga. Tuttavia egli riconosce pure che alla fine è attraverso un singolo atto che si può perdere l’amicizia con Dio.
I manuali di teologia morale che non prendevano in considerazione l’opzione fondamentale o che badavano poco al modo in cui la grazia di Dio opera in noi, spesso suggerivano l’impressione che un cristiano medio potesse cadere sette volte al giorno nel peccato mortale ed altrettante volte risorgere da esso. Psicologicamente ciò è quasi impensabile.
Ibid.
A questo punto Häring illustra i due modi estremi con cui si può perdere l’amicizia con Dio:
Nel primo caso ciò può avvenire mediante un peccato mortale commesso da una persona che possiede ancora una visione chiara, un’acuta consapevolezza del fatto che un certo atto contraddice l’amicizia con Dio, e nondimeno decide in favore di tale atto che raggiunge la profondità del suo cuore e si imprime in tutto il suo essere.
L’altro tipo estremo di perdita dell’amicizia di Dio potrebbe essere il risultato di molti peccati veniali: attraverso l’abuso frequente della grazia di Dio, attraverso un crescente lassismo che smorza sempre più la sensibilità di una persona per il bene, la sua gratitudine per Dio e la sua responsabilità per i bisogni degli altri, si arriva al punto che l’opzione fondamentale viene rovesciata da un atto liberamente scelto, sebbene privo di grande intensità, come un alito di vento spegne una candela la cui fiamma sta già esaurendosi.
Bernard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I, 258
Perciò – prosegue il Redentorista – non dovremmo pensare che l’opzione fondamentale abbia una struttura statica o che essa si sostenga automaticamente da sé. Ogni decisione mette in moto un certo processo di sviluppo o per il bene o per il male. Ma non si dovrebbe negare che nella storia di una persona ci siano momenti nei quali un atto concreto può rovesciare l’opzione fondamentale.
Bernard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I, 258-259
Di simili atti la storia della letteratura ottocentesca è piena (ed è il motivo per cui durerà nei secoli, a differenza di molta paccottiglia novecentesca e contemporanea), e ogni volta che leggo dell’“abuso della grazia” ripenso a quella tremenda pagina di Teresa di Lisieux (il Redentorista non sarà dottore della Chiesa, ma la Carmelitana lo è…):
Esistono davvero anime senza fede, le quali per l’abuso delle grazie hanno perduto questo tesoro immenso, sorgente delle sole gioie pure e vere.
Teresa di Lisieux, Manoscritto autobiografico C
“Abusare della grazia” significa appunto sottostimare il peccato, quello quotidiano che non dà nell’occhio e che rapidamente non viene più segnalato neppure dalla coscienza, non appena questa viene narcotizzata appunto da quel tipo di peccato.
Si rinviene perfino, talvolta, in alcune agiografie, il caso che simili anime addormentate siano state ridestate da un forte raggio di grazia dato dalla Pietà divina in concomitanza con qualche peccato di ordine superiore, talvolta perfino un crimine.
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E proviamo ad ascoltare padre Häring, infine, sulla famigerata distinzione tra peccato mortale e peccato veniale:
[…] i teologi ritenevano che le linee di confine fra peccato mortale e veniale si determinano oggettivamente in base alla gravità della materia. Taluni moralisti, però, aderivano che in ambito sessuale tutto costituiva materia grave. Essi non tenevano conto dell’enorme diversità di livelli di sviluppo e di sensibilità morale.
È mia convinzione che non si può determinare un confine obiettivo, valido per tutti, fra il peccato mortale ed il peccato veniale. Possiamo però affermare che una materia relativamente leggera non può normalmente costituire l’oggetto di un peccato mortale. L’enfasi sta sul relativamente, che significa proporzione al livello morale, alla maturità, alla consapevolezza e al pieno uso della libertà della persona singola. Ciò che una persona non considera materia grave, a un’altra molto sensibile può apparire come assolutamente inconciliabile con l’amicizia di Dio.
Bernard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I, 259
Ed effettivamente chiunque di noi può facilmente immaginare quante lacrime piangerebbe se, come d’incanto, ci ritrovassimo all’improvviso a fare l’esame di coscienza serale con «il livello morale, la maturità, la consapevolezza» di una Teresa di Lisieux, di un Francesco d’Assisi, di un Giovanni della Croce. Sarebbe quasi certamente lo schianto del nostro grasso e debole cuore. Spiega Häring:
Un atto relativamente piccolo di bontà normalmente non capovolgerà un’opzione fondamentale cattiva in un’opzione fondamentale buona, anche se può costituire un primo passo in questa direzione. Similmente ogni peccato, se il pentimento non è immediato, ha la possibilità minacciosa di essere e di diventare un primo passo verso lo sfacelo.
Bernard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I, 259-260
Insomma, come già avevo accennato qualche altra volta, la questione sta in questi termini: quanti trovano inaccettabili le dottrine di Häring (che comunque sono autorevoli opinioni teologiche e non Magistero, anche se la Santa Sede non ha trovato in esse alcunché di riprovevole) devono probabilmente riconoscere di muoversi in un orizzonte in cui il peccato veniale è “un peccato tollerabile”, “un peccato che si può fare”. Assistiamo quindi al bel paradosso dei pretesi rigoristi che si scoprono lassisti: Häring ha invece spiegato in modo veramente esaustivo e condivisibile – salvo il caso di preclusioni ideologiche – che nessun peccato è tollerabile, nessun peccato “si può fare”, proprio perché tutti portano invariabilmente «alla morte e alla morte eterna».
Häring discute poi di come si possa giungere, ordinariamente, a commettere un atto che attesti e significhi la spaventosa ribellione aperta della creatura al Creatore. La risposta è, appunto: ci si arriva peccato dopo peccato, quasi inavvertitamente. Quella del male è una china viscida e infida, su cui ondeggiano acque limacciose e opache: ogni nuovo passo è virtualmente quello sotto al quale si potrà spalancare la buca fatale.
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Mi rendo conto che, se vi lasciassi così, vi abbandonerei forse in preda allo scoramento, perché forse avete cominciato a leggere questo articolo cercando di individuare il “limite peccati sicuri” e finite scoprendo che nessun peccato è sicuro. In realtà un’alternativa c’è, ed è perfino entusiasmante: vivere bene. Esercitare le virtù e godere di ogni bene che ci è dato, con e per gli altri, mentre tendiamo alla città di Dio e costruiamo insieme la città degli uomini. Per questo voglio concludere con un ultimo paragrafo di padre Bernard Häring, che spero di avervi invogliati a conoscere:
Nessun essere umano può definire con precisione quanta libertà e consapevolezza siano necessarie per commettere un peccato mortale, che è sempre un peccato proporzionato all’eterna dannazione comminata da un Dio santo e misericordioso. È mia convinzione che non ci può essere peccato mortale senza un’opzione o intenzione fondamentale che volge la libertà basilare del soggetto verso il male. E noi possediamo almeno dei criteri approssimativi, per determinare quando una persona non vive con un’opzione fondamentale contraria a Dio. Vale a dire: presumiamo che la persona non ha fatto una tale opzione se, subito dopo la caduta, sente un autentico dispiacere per il peccato e continua a sforzarsi di piacere a Dio e a fare ciò che è giusto.
Bernard Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. I, 261
Così peccano i santi: soffrendo per ogni peccato e conformandosi così misticamente al corpo piagato di Cristo. Per questo Papa Francesco ripete spesso: «Per i peccatori qui, nella Chiesa, c’è posto. Per i corrotti no».