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Sapete perché ci lamentiamo così spesso? Perché siamo abituati!

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Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 27/12/17
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Purtroppo e per fortuna “funzioniamo”così: se una cosa impariamo a farla bene è arduo abbandonarla. Anche se fa maleSfogliando il primo numero del nuovo anno di BenEssere, la salute con l’anima (edita dalla San Paolo), disponibile in edicola e acquistabile in abbonamento, la mia collega ed io non abbiamo potuto evitare di notare, tra i molti contributi sostanziosi e interessanti, l‘intervista all’autore di un libro che abbiamo già avuto modo di incontrare, proprio tra le mani del Santo Padre: Vietato lamentarsi dello psicoterapeuta Salvo Noè, edito dalla stessa casa editrice.



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E riflettendo su questo diffuso costume, quello della lamentela (una versione molto meno nobile e troppo approssimativa nella scelta del destinatario per essere assimilata alle Lamentazioni, genere letterario biblico codificato e vera preghiera che dobbiamo fare nostra perché ci rivolgiamo a Colui che può tutto -come ricordava il Card. Biffi in fondo l’ateo è ben meschino nella sua condizione: quando le cose gli vanno male non ha nessuno di competente e all’altezza con cui prendersela!), ho notato in una delle mie figlie, quella che può vantare un livello professionistico di lamentela sistematica, un’uscita particolarmente acuta: “il mio cervello a volte è sciocco. Mi fa pensare cose che insomma non sono così vere!”.



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Innanzitutto, figlia mia, dove hai imparato questa meravigliosa, liberante, ribelle distinzione tra io e cervello? Tra la mente e l’anima? Tra ciò che tu sei e vuoi e ciò che ti capita di pensare? E quanto è bello che tu sappia fare questa riflessione! Che tu osservi i tuoi pensieri senza dare loro sempre tutta questa importanza perché non sono tutti nobili, non sono tutti ben governati. E soprattutto sono fatti, eventi. Alcuni belli, altri brutti. Alcuni vivificanti, altri ammorbanti.

Ecco allora, cara adolescente spaccona e timida, incerta e spavalda, che ti consideri così spesso troppo al di sotto di quanto vali (tutto, amore. Tu vali tutto e la tua anima, vasta, quodammodo omnia est. Ne approfitto per suggerirti di studiarlo, il latino) hai capito una cosa davvero importante e fai bene a rendermene parte. Certo alle nove del mattino sarei stata più lucida nell’ascolto e nei commenti che non la sera alle ventitre, ma non sto a sottilizzare, soprattutto perché è un incarico che ti sei assunta tu per tutta la famiglia.

Tornando a noi, cara figliola, vorrei usare contro di te e contro tutti noi la tua intuizione. Un contro che in realtà significa a favore: se in base alla tua bella pensata e al lavoro sistematico e documentato dello psicoterapeuta, apprezzato da Papa Francesco, siamo d’accordo che la nostra mente fa cose non sempre utili e soprattutto, essendo una cosa meravigliosa e funzionale, tende al risparmio utilizzando non appena le riesce il sistema dell’automatismo, perché non cerchiamo di eliminare l’abitudine alla lamentela e di introdurne di più utili e benefiche?

Questo, cara figlia, vale per te ma vale per tutti noi. Per esempio vale senza dubbio per me. Che mi lamento con tuo papà di quanto siate lamentose voi figlie. Oppure mi lamento con lui di lui stesso. E lo faccio in modo non soltanto sistematico bensì pure intensivo, allo scopo di restare nella piccola finestra di attenzione che mi concede (un po’ come le avvertenze speciali al termine degli spot radio: accelerati al punto da essere quasi incomprensibili!).

E invece essere contenti, cercare il positivo in tutte le circostanze, gioire di quel che c’è è un atto molto più intelligente e adulto di quel che pensiamo e di quel che la moda della denuncia social ci faccia credere.



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Eppure quella soglia di attenzione ridotta che va ulteriormente erodendosi è la salvezza di mio marito: ascoltare una persona che si lamenta, per trenta minuti al giorno – soglia sotto la quale mi fregio di restare, più o meno –  fa malissimo!

E’ come se sottoponessi me al fumo attivo di una sigaretta e il mio interlocutore a quello passivo: il danno è consistente per entrambi!

Spiega il dott. Noè:

«Una ricerca scientifica, condotta dalla Stanford University, ha dimostrato che ascoltare o esprimere per oltre trenta minuti al giorno pensieri negativi nuoce a livello cerebrale. Disperdiamo energia, generiamo uno stato d’animo negativo e infine somatizziamo l’insoddisfazione sul corpo, per esempio con gastriti, tipiche di chi non riesce a digerire qualche aspetto della propria vita, oppure asma o riniti allergiche, spesso manifestazione di qualcosa che non si riesce a comunicare». (BenEssere, Gennaio 2018, p. 107).

E sebbene lo psicoterapeuta indichi come frasi sospette alcune delle mie espressioni più ricorrenti, “tu non capisci il mio dolore, non sai cosa ho passato”, cercherò di non farmi impressionare, soprattutto visto il consiglio, saggio e ragionevole, che mette a chiusura dell’intervista.

Alla domanda su come cavarsela quando si ha a che fare con “lamentoni professionisti” dice, senza troppi giri, che il rischio contagio è reale e serio. E per questo motivo è bene stare attenti a non venire infettati.



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«Possiamo aiutarli a capire che lamentarsi non risolverà i loro problemi, ma allo stesso tempo non dobbiamo lasciarci “contagiare”. Frequentare persone negative ci rende negativi, perché il cervello si plasma in base agli stimoli cognitivi a cui viene esposto. Dunque, rendiamoci esempio, stimolo e modello, ma senza cadere nella rete. E ricordiamo sempre che tutti i nostri sogni possono diventare realtà se abbiamo il coraggio di perseguirli». (Ibidem)

Per cui, come al solito, ha ragione mio marito. Ma non andateglielo a dire ché poi si monta la testa (almeno fino a che non avremo pubblicato un contributo scientifico su come gestire le “persone che si montano la testa”).

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