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Ridatemi subito Katia!

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Paola Belletti - Aleteia Italia - pubblicato il 06/10/17

Un caso di cyberbullismo, quello che ha investito Katia Ghirardi, direttrice di filiale per Intesa San Paolo. Ma sono tante le persone che le manifestano solidarietà e comprensione. Anche Selvaggia Lucarelli

C’è stato un attimo. Un momento soltanto, mentre vagavo su Facebook, l’altro ieri, in cui ho visto un contenuto condiviso da un amico. Veniva da unapagina che ogni tanto mi aiuta a staccare e a ridere. Di solito però non mette alla berlina nessuno e le cose volgari o eccessive le leggo senza leggerle, passando con un’abile scroll al post successivo.

Guardando quel video ho forse riso, anzi sorriso, anzi forse solo scosso la testa. Non era proprio una di quelle cose da sganasciarsi. Anzi. La sequenza di “anzi” e la continua insistenza di questi giorni su quel video vi ha già fatto capire a cosa mi stia riferendo. Quello in cui Katia Ghirardi, direttrice della filiale di Intesa San Paolo di Castiglione delle Stiviere, patria di San Luigi Gonzaga, bella cittadina mantovana, famosa già prima di essere sede di industrie tessili o alimentari, realizza un video con i suoi colleghi per dire quanto sia bello lavorare lì.

Ho aggiunto un breve commento anche io. Non cattivo, ma sciatto. Così per poter dire “io c’ero”. Ma poco dopo ho potuto constatare quante visualizzazioni (milioni) e quanti commenti e condivisioni e puntate radiofoniche ha meritato questo video. Per questo sento la responsabilità di dire una cosa anche io, chiara e forte. Che volete, che vogliamo tutti da Katia?

Io la conosco di persona. Ci siamo incontrate tante volte sui gradini della scuola, in palestra alla recita di fine anno, in Chiesa. Katia è sempre sorridente. Una di quelle che ti saluta con un tono di voce intelligibile e cerca il contatto visivo. Ti chiede come va e le interessa.

Non è una apologia, questa, piuttosto una semplice protesta. Anzi temo una infuocata invettiva. Katia non è vostra!
Mi sento quasi derubata anche io! Mentre Katia non è nemmeno mia. E non andrebbe difesa perché è speciale!

È uno dei volti che avevo così tanto piacere di incrociare nell’aiola (rigata) che ci fa tanto feroci (parcheggio della scuola). Una di quelle che sicuramente avrebbe risposto o anticipato il mio saluto e così mi avrebbe dissuaso dal pubblicare post piccati su quanto poco le persone tendano a salutare oggidì e “dove andremo a finire”… Che raccontava di sé senza diventare un’alluvione di parole e, pensate, in caso ne avessi avuto bisogno, mi avrebbe ascoltata. Sul serio. Cioè prima, molto prima di partecipare, che so, a sessioni di team building e comunicazione efficace. E ascolto empatico.

Lo è già, empatica. Senza corsi. Talento naturale? Sì, credo.

Ci sono tante persone così; sembrano casi rari invece sono solo messi all’angolo del palcoscenico contemporaneo, sempre col sipario aperto, perché ora va molto il tipo assertivo e deciso, quello magnetico, quello che sa farsi valere. Si vede anche nel marketing: l’auto cattiva, la belva che c’è in te, l’istinto da liberare, la tentazione a cui cedere, il tuo enorme ego da coccolare, premiare, valorizzare.

Quindi, cari i miei più o meno improvvisati guru del marketing sofisticato e customizzato, intanto calmatevi. Usate toni, immagini, metafore che avete rubato proprio a noi cattolici che credete macchiette, alle catechiste e ai parrocchiani che sfottete. E risultate patetici come uno che fosse stato ibernato nel ‘68 e si svegliasse ora per dire “da adesso in poi capelli lunghi per gli uomini e minigonne per le ragazze!”. La solita trasgressione da parco giochi. Come impennare con la minimoto. A batterie. O scappare di casa, per non superare nemmeno la siepe in fondo al giardino.

Katia si propone(va) su Facebook in modo autentico e sereno, per quel che ricordo. (Ora che tutti sanno il suo nome, il cognome, la faccia, ha tolto la foto profilo! Perché deve esservi costretta?!)

Hanno raccontato, ridacchiando e insultandola, chepostava contenuti e immagini da Radio Maria. Ma ce ne fossero! Viva Radio Maria! Giù le zampe pure da Radio Maria, unica radio “Punk” e libera, come dice il co-leader dei Mienmiuaif.

Coraggiosi invece i selfie in bagno che molti di noi quarantenni collezioniamo o i finti ritratti mentre guardiamo il mare e invece siamo lì col braccio teso.

In ogni caso guardate qua: Katia ha obbedito al compito che l’azienda le aveva assegnato.

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Intesa San Paolo

Il contest della banca che proponeva l'iniziativa

Mode aziendali: siamo tutti Steve Jobs?

Lo ha fatto in un modo forse poco accattivante? Si è spostata troppo nel quadrante del grottesco? Può essere: ma lo sanno i top manager che invece spesso ad essere presi in giro sono proprio loro e le loro idee anglosassoni così mal copiate? Che si rendono patetici quando si credono degli Steve Jobs redivivi? Non è che basti  uno Stay hungry, stay foolish postato in bacheca a renderci geniali.

Io me la immagino, Katia,  – ed è una semplice fantasia – mentre, piena di entusiasmo, propone idee, si offre di scrivere lei testo del parlato e del jingle e pensa anche alla parte canora. E i colleghi? Chi lo sa, forse era solo contenti di non doverci pensare loro e di dover ridurre al minimo la propria esposizione. Perché a molti di noi è rimasta la legnosa goffaggine dell’esibizione tra i pari, del mettersi in mostra, del salire su un palco da dilettanti allo sbaraglio. Come ci toccava a volte anche da studenti o da ragazzini all’oratorio.

Eppure, come scriveva qualcuno su Facebook (cercate di Vittoria Rossi!)  quanto bene ci hanno fatto quelle mastodontiche figure da carciofo collezionate nella gloriosa età dei brufoli! Vincersi, prendersi in giro, piacersi anche un po’. E  sentirci legati da un cameratismo nuovo, disposti a scusarci l’un l’altro, ridendo a turno di ogni penoso numero.

Dell’era “Oratorio” io posso vantare ben due dimenticabili spettacoli canori intitolati “Sanremo famosi”  (gioco di parole che allora ci era sembrato simpaticissimo); nella prima edizione ero magrissima, ben vestita, pettinata e intonata. Cantai La mia banda suona il Rock. Nella seconda, solo un anno dopo, ero sempre io, uguale uguale, ma con 15 kg in più, un’altissima coda di cavallo – un cavallo imbizzarrito- degli enormi jeans rubati ai fratelli indossati insieme con il desiderio irrefrenabile di essere altrove e forse anche di essere qualcun altro. Invece lo feci. Mi esibii. Salii su quel palco e cantai, male, I’m your Venus, i’m your fire and your desire! Sempre in coppia con la mia intramontabile amica Patty.

Erano gli anni ’90 e qualcuno girò i filmati. Tuttora disponibili in qualche polveroso VHS (Elena, cara, mi sento di dissuaderti dall’andarli a cercare in cantina. Perché lo so che tu ce li hai! Hai sempre preteso foto ricordo per ogni cosa. So che possiedi anche quei filmati!).

L’altra cosa che ricordo legata alla vicenda che ha investito questa cara signora sono le riunioni motivazionali del lunedì mattina alle quali eravamo costretti, tutti, quando lavoravo per un’ organizzazione simile a quella di Katia, per settore merceologico e storia gloriosa.

Alcuni prescelti, tra i quali non ero compresa perché colpevole di avere già una figlia, furono “deportati” ad una sessione segretissima di team building durante la quale dovettero confessare cose intime e dolorose e compiere gesta adrenaliniche tipo saltare da non so dove.

Qualcuno se ne andò. Addirittura uno dei capi supremi si sottrasse. Quella volta sì, l’ho stimato. Perché aveva posto un limite: “c’è una parte della mia vita che non può essere data in pasto a voi”.

Ho divagato. E sicuramente molte sono le aziende che propongono formazione professionale di qualità. Ne sono certa perché le ho frequentate.

Detto questo, due cose: o lanciamo noi una campagna alla #JesuisKatia e ci auto ridicolizziamo con qualche video, oppure è il caso che l’azienda alla quale Katia ha offerto così tanto entusiasmo e dedizione si inventi un modo per riabilitarla, proteggerla e non farla cedere alle pressioni dei bulli di quartiere (il guaio è che il quartiere si è enormemente allargato). E dal collega che ha fatto circolare il video  (destinato ad uso interno) esiga pubblica ammenda, per cominciare. Alle volte la cara vecchia sanzione potrebbe ancora sortire il suo effetto, no?

Mode aziendali: la gamefication a tutti i costi? Rimettiamo il lavoro nella sua dimensione veramente umana

In attesa di trovare l’hashtag giusto possiamo anche considerare la pesantezza di certe richieste.

Perché questi contest? Perché questa ludicizzazione a tappe forzate imposta a persone adulte, impegnate a tenere in piedi famiglie e pagare mutui? Perché dover per forza realizzare cose divertenti per dire quanto sia bello lavorare qua o là? (ché “divertiti!” come comando è una comunicazione evidentemente paradossale). Lavorare è per l’uomo un vero bisogno, un fronte lungo il quale scopre il proprio valore. Ma il campo di battaglia è la vita, non l’azienda. E l’ideale per il quale dobbiamo combattere è fuori dall’azienda o, fosse anche dentro, la sovrasta. Semmai è l’azienda che lo serve, che serve noi, noi persone! Non siamo merce. Non siamo cose. Non siamo funzioni di un sistema. Non siamo risorse.

Cyberbullismo e non tra teenagers

Katia, senza pensare a tutelarsi da pericoli che non riteneva incombenti, è stata derisa, esposta a dileggio, crudeltà, violenza. Sembra che lo schermo, per noi, funzioni come uno scudo per poter menare fendenti a destra e a manca.

Col fatto che non dobbiamo subire la forza dello sguardo, della presenza, dei gesti, del dolore o della rabbia che magari vedremmo dipingersi sul volto della vittima,  la ferocia, come un cavallo pazzo, esce dalle scuderie che teniamo poco sorvegliate e va all’impazzata, calpesta tutto, nitrisce. Non è un riso vero, ma un verso strano emesso per la goduria selvaggia di poter far andare gli zoccoli. Non sente l’altro. L’altro è quello su cui infierire. Non sono io, è la vittima. I neuroni specchio si sono dati alla macchia e resta solo la stolida crudeltà che ci buttiamo giù in gola come un short di alcool puro.

La cosa più terribile di Facebook e associati è che siamo noi (e non ci ricordiamo di quali mostruosità sia capace il nostro cuore) ma senza gli altri intorno, fisicamente presenti. A ridimensionarci con il loro esserci, a farci decidere di tacere o di essere almeno ipocriti per paura del conflitto, a optare per un sorriso non perché siamo buoni ma perché essere accettati è più bello. Ridatemi Katia. Lasciatemela di nuovo a portata di saluto, occhiata veloce, di “come va la tua a scuola, si trova bene?”. Non è vostra.

Ridatele il diritto di sbagliare (ma ha veramente sbagliato?) in un campo d’azione gestibile e non di fronte al mondo. Di essere forse poco divertente (in quel minuto di video! Che, ricordiamolo ancora, era destinato ad uso interno aziendale).  Lasciatele in pieno il diritto di guadagnarsi da vivere con il suo lavoro. Sono abbastanza sicura che sia parecchio brava e affidabile.  Non sono nessuno ma le lascerei i miei figli per giorni, se ne avessi necessità. E questa capacità, soft skill, metacompetenza, chiamatela un po’ come vi paregentili signori delle H.R. (perché dire così fa molto cool, le Human Resources sembrano una cosa difficilissima e molto professionale) come fate a trovarla? Avete corsi appositi?

Non fatemi ridere.

Tenetevela stretta, Katia, e magari fatela uscire in tempo dal lavoro per stare coi suoi cari o bersi un caffè con un’amica. O una vecchia buona conoscenza.

Io ci sto. E ci metto il caffè.

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