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Il Congo di nuovo in fiamme

Vatican Insider - pubblicato il 22/02/17

È stato lo stesso Papa, a margine dell’Angelus di domenica 19 febbraio, a lanciare l’allarme per le persistenti «notizie di scontri violenti e brutali» che giungono da ogni angolo della Repubblica Democratica del Congo. Nella settimana appena trascorsa 25 civili hutu sono stati decapitati in un agguato condotto dalle milizie Mai-Mai Mazembe nella martoriata provincia del Nord Kivu, mentre sarebbero oltre 100 le vittime degli scontri scatenatisi nella regione del Kasai Centrale da dove, il vescovo di Luiza, parla di «atrocità inimmaginabili nei confronti di tranquilli cittadini». La stessa Kinshasa è teatro di violenze e assalti. 

Alla base di questi nuovi focolai di violenza in molte regioni del grande Paese africano, c’è la profonda instabilità politica in cui il Congo è precipitato a causa del rifiuto di Jospeh Kabila a lasciare il potere. Il suo mandato, secondo il dettame costituzionale, sarebbe scaduto nel dicembre scorso. Kabila, però, salito al potere in seguito all’uccisione del padre Laurent-Désiré (presidente dal 1997 al 2001), adducendo ragioni di sicurezza, ha prima dichiarato di voler cambiare la costituzione e si è poi arroccato nel palazzo presidenziale rigettando ogni trattativa.  

Nel clima turbolento che si è venuto a instaurare sono emersi con sempre maggiore forza gruppi e gruppuscoli resisi protagonisti di violenze diffuse o di scontri con le forze governative. Tra questi spiccano il Bundu dia Kongo (una sorta di setta militare in azione soprattutto nella zona della capitale, al cui vertice c’è il capo carismatico Ne Muanda Nsemi) o la milizia Kamuina Nsapu (dal nome del defunto leader) molto attiva in Kasai. L’accordo pre-natalizio, quindi, che faceva intravedere una nuova fase pacifica, sembra sempre più perdere la sua forza propulsiva. In questo clima di vuoto istituzionale, arriva esiziale la notizia della morte di Etienne Tshisekedi (1 febbraio), figura storica della politica congolese e riferimento di gran parte dell’opposizione. 

A Roma per un convegno dei Superiori Comboniani, Joseph Mumbere, provinciale del Congo, offre a Vatican Insider la sua visione degli eventi tra speranze di pacificazione e terrori di crollo nel baratro della guerra civile. «Il problema generale è istituzionale. Kabila, in tutti questi lunghi anni ha creato molto malessere e il malessere genera reazioni. Sorgono gruppi armati ovunque. Ci sono due tipi di lotta al momento: quella portata avanti da chi ancora crede in un percorso politico e si batte per un Congo con istituzioni forti che rispettino la costituzione, e quella di movimenti che usano armi e violenza. I terribili scontri in atto nella provincia del Kasai hanno varie origini. Tra queste c’è la richiesta di una parte politica che ha preso parte alle trattative per l’accordo del 5 dicembre, che si aspettava di ottenere immediatamente un ruolo politico. Ora, al grido «Kabila non è Congolese» sta aizzando violenza in tutta la regione. Poi, specie nell’est del Paese, ci sono gruppi che combattono per meri interessi geopolitici ed economici o altri ancora che hanno origini esterne al Paese, ad esempio l’Adf/Nalu che è appoggiato da forze ugandesi e da ribelli del Rwanda venuti durante il genocidio. Il Paese è in preda al caos anche perché è venuto a mancare Etienne Tshisekedi, il simbolo dell’opposizione a Kabila padre e figlio, capace di raccogliere un consenso politico trasversale nei gruppi. Al momento non esiste un vero leader capace di prendere le redini della lotta anti-Kabila».  

Eppure, alla fine dell’anno, si profilavano nuove speranze. «L’accordo – spiega Mumbere – è stato un segno di speranza. La firma ha portato a una tregua e all’avvio di una road map che prevedeva la fine del mandato di Kabila nel dicembre del 2017 e una serie di misure pratiche: la nomina di un nuovo primo ministro, una commissione che doveva vegliare sull’accordo. Ma non si riesce a trovare un consenso sui nomi, sulla natura della commissione. E nel frattempo è morto l’unico leader capace di incutere rispetto e di tenere insieme i gruppi dell’opposizione. L’accordo aveva dato speranze, ma al momento è tutto bloccato». 

La Chiesa da tempo gioca un ruolo decisivo nel Paese. Ha assunto un profilo politico a tutti gli effetti. «La Chiesa è stata sempre molto attiva nell’ambito sociale e politico, è l’unica istituzione presente in tutto il paese, in ogni angolo», afferma il provinciale. «Lo stesso Kabila – aggiunge – dopo il fallimento dei colloqui guidati dal togolese Edem Kodjo, si è rivolto all’allora presidente della Cenco (Conferenza Episcopale) Marcel Utembi per dialogare con le opposizioni. Fino a quel punto nessun partito anti-Kabila aveva mai preso parte a colloqui. Grazie alla mediazione della Chiesa si è aperta la stagione del dialogo e si è raggiunto l’unico accordo che ha fatto sedere tutti attorno al tavolo». 

«I missionari Comboniani si trovano nelle zone più critiche del Congo, per esempio a Butembo, nel Kivu, o nella regione dell’ Uele nel nord-est, o in altre aree dove le comunità sono costantemente sotto pressione. Noi siamo proprio in mezzo a loro: la scelta è di rimanere tra la gente, dove la popolazione vorrebbe fuggire, rimanere lì e aiutarla a restare. È un impegno che ci siamo presi, specie in quelle regioni inaccessibili, in cui le strade non esistono, le infrastrutture non esistono: gestiamo scuole, ospedali o siamo semplicemente presenti accanto alle persone». 

Alla sua domanda su quali siano i suoi timori e le sue speranze, padre Joseph afferma: «La prima speranza è nella gioventù. Tanti ragazzi hanno preso coscienza della lotta per il cambiamento. Se siamo arrivati al punto che Kabila ha accettato di non cambiare la costituzione e di indire, sebbene tra un anno, nuove elezioni, è anche grazie a loro. Alcuni di questi giovani hanno perfino hanno perso la vita per i loro ideali. Ma temo che proprio questi stessi ragazzi possano essere strumentalizzati: la disoccupazione è molto alta, ci sono molti disagi, si rischia altra violenza. Il pericolo di una guerra civile è reale». 

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