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“Populorum Progressio? Se l’avessimo seguita, il flusso dei migranti non sarebbe stato così tragico”

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Vatican Insider - pubblicato il 14/02/17

Malnati commenta l’enciclica del beato Paolo VI: di fronte all’immigrazione si è «impreparati perché non abbiamo a piccoli passi realizzato l’auspicata “civiltà dell’amore”»

di Ettore Malnati*

Avvicinandoci alla ricorrenza cinquantenaria (26 marzo 1967) dell’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, ritengo doveroso richiamare l’animo con cui Papa Montini ha pensato, e poi donato alla Chiesa tutta e alle persone di buona volontà, quell’enciclica così attenta alla persona e ai popoli del sud del mondo.

La sua sensibilità sociale, che già da Arcivescovo di Milano lo porta a essere tra gli operai e per gli operai e tra gli ultimi, non lo abbandona da Successore di Pietro.

Chi non ricorda la notte di Natale di Paolo VI tra gli operai di Taranto o tra i Fiorentini colpiti dall’alluvione, tra gli Zingari a Pomezia, il suo appello in America Latina per i Campesinos, tra i ragazzi abbandonati nelle periferie di Bombay etc.?

Paolo VI già durante il Concilio è profondamente preoccupato per tutte le problematiche che travagliano i popoli dei paesi in via di sviluppo. La relazione dei vescovi, dei missionari sia religiosi che laici, i colloqui con uomini di pensiero come Martain e Guitton sui diritti umani e sul controllo delle nascite, la documentazione da lui consultata per l’intervento all’Onu, persuadono Papa Montini a dire una parola a tutela e difesa «dei popoli della fame» ai popoli dell’opulenza.

Nel suo stile di uomo prudente e coscienzioso, Paolo VI procede e passa in rassegna le gravi anomalie e povertà che vi sono non solo nel terzo mondo. Il 9 ottobre 1966 Papa Montini anticipa la notizia che sta preparando una lettera enciclica sullo sviluppo sociale ed economico e sottolinea che non si tratta di un trattato, bensì di «una lettera… che deve orientare risolutamente sia la Chiesa che l’opinione pubblica del mondo verso le tesi sviluppate in essa, offrendo soluzioni umane e scientifiche insieme». La Lettera sarà resa nota il 28 marzo 1967, recante la data del 26 marzo, giorno di Pasqua per i cattolici. Proprio per questa data – dice Tornielli – l’economista francese F. Perroux la chiamerà: «l’enciclica della Risurrezione».

Paolo VI in linea con le encicliche sociali della Chiesa cattolica, a partire dalla Rerum Novarum di Leone XIII e le ultime del suo predecessore Giovanni XXIII, Mater et Magistra e Pacem in Terris, decide di offrire con la Populorum Progressio dei criteri affinchè i cristiani, impegnati negli organismi internazionali e in quelli delle proprie nazioni, contribuiscano concretamente a un vivere più dignitoso, fraterno e pacifico per l’intera umanità. Il Papa in questa sua Lettera vuole essere eco di ciò che i padri conciliari del Vaticano II avevano indicato nella costituzione pastorale Gaudium et Spes, documento questo che è il risultato del molto dibattuto «schema 13»: De Ecclesia in mundo huius temporibus, che fu votato nel suo complesso definitivo il 7 dicembre 1965 con questi risultati: votanti presenti 2391, favorevoli al decreto 2309, contrari 75.

Il Papa avrebbe voluto circa i problemi sociali richiamare la comunità cristiana e quella civile alle preziose indicazioni conciliari. Ma la situazione internazionale che si presenta nella seconda metà degli anni sessanta circa la fame, la miseria, la guerra del Vietnam e la «rivoluzione culturale» in atto in Cina, il problema dell’analfabetismo e della natalità con alta percentuale di mortalità infantile nei paesi del terzo mondo fa sorgere in Paolo VI l’urgenza di far prendere coscienza all’intera umanità che, essendo questa un’unica famiglia, è necessario riflettere e provvedere.

L’enciclica di Paolo VI si apre con la precisazione che lo sviluppo dei popoli è oggetto di attenzione particolare della Chiesa, «specialmente di quei popoli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche e dell’ignoranza» ( n.1). Valuta il colonialismo nelle sue luci e nelle sue ombre e fa riflettere sulla velocità dell’economia moderna che è causa dell’aumento dello squilibrio tra i paesi ricchi e quelli poveri (nn. 7,8 ). Loda l’opera dei ministeri (n.12) e delinea la visione cristiana dello sviluppo, che «non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (n.14).

Tratta della proprietà privata, sempre sancita dalla dottrina sociale come sacra, in un modo nuovo alla luce di 1 Gv 3, 17, dove la necessità del fratello deve generare concreta condivisione. La sua affermazione è categorica: «La proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno» (n. 23). Questo passo dell’Enciclica fu da alcuni governi non visto con favore.

Paolo VI in questa Enciclica indica inoltre l’importanza dell’introduzione dell’industria quale segno e fattore concreto di sviluppo e pone al centro l’uomo, sottolineando che questi «con la sua intelligenza e il suo lavoro strappa poco a poco i suoi segreti alla natura favorendo un miglior uso delle sue ricchezze» (n.25). Nemico di questo egoistico sviluppo ad ampio respiro «si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Non si condanneranno mai abbastanza simili abusi» (n. 26).

«Bisogna affrettarsi, dice Paolo VI, perché troppi uomini soffrono e aumenta la distanza che separa il progresso degli uni e la stagnazione… degli altri… [È necessario non sottovalutare che] quando popolazioni intere… vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità…, grande la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana… [Ma anche] l’insurrezione rivoluzionaria – salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie…» (nn. 29,30,31).

Ci vuole – dice Paolo VI – un umanesimo planetario. Cioè uno sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo, aperto ai valori dello spirito e a ciò che ne è la fonte. «Non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto… lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi. Secondo l’espressione così giusta di Pascal: L’uomo supera infinitamente l’uomo» (n.42).

Nella seconda parte dell’enciclica Papa Montini chiede alla Chiesa e alla comunità internazionale l’assistenza ai deboli per debellare la fame (nn. 45,47), attraverso una concreta solidarietà (n.48) e la costituzione di un fondo mondiale, alimentato dalla rinuncia alle spese militari per venire incontro ai più bisognosi. E ciò è urgente. E sottolinea: «Noi abbiamo il dovere di denunciarlo» (n.51). Tratta poi dell’iniquità nelle relazioni commerciali, richiamando il fatto che «la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali… [ soprattutto] quando le condizioni siano divenute diseguali da Paese a Paese» (n. 58). Vi sono – dice Paolo VI – misure da prendere in campo internazionale e ostacoli da superare come il nazionalismo (n. 62), il razzismo (n. 63), ma è inoltre necessario dare l’opportunità ai «popoli più giovani e più deboli di avere una parte attiva nella costruzione di un mondo migliore, più rispettoso dei diritti e della vocazione di ciascuno. Il loro appello è legittimo» (n.65).

Paolo VI, trattando della carità universale mette a cuore i doveri che sono connessi all’ospitalità e si preoccupa che si aiutino soprattutto gli studenti del «Terzo Mondo» ospiti per studi a non smarrire il senso dei loro valori spirituali (n. 68) e anche i «lavoratori emigrati, che vivono spesso in condizioni disumane costretti a spendere il proprio salario per alleviare un po’ le famiglie rimaste nella miseria sul suolo natale» (n. 69).

L’Enciclica si conclude con una profetica e sapiente affermazione che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (n.76). Infatti la pace non può ridursi alla sola assenza di guerra. Paolo VI conclude la sua Enciclica rivolgendosi ai cattolici, ai cristiani, ai credenti e agli uomini di buona volontà, agli uomini di Stato, agli uomini di pensiero con queste parole: «Voi tutti che avete inteso l’appello dei popoli sofferenti, voi tutti che lavorate per rispondervi, voi siate gli apostoli del buono e vero sviluppo, che non è la ricchezza egoistica e amata per se stessa ma l’economia a servizio dell’uomo, il pane quotidiano distribuito a tutti come sorgente di fraternità e segno della Provvidenza» (n. 86).

Questi accenti indicano l’accorata preoccupazione di un uomo – Paolo VI – al quale veramente, alla luce della fraternità evangelica, stanno a cuore la giustizia sociale, la pace, l’emancipazione integrale della persona e di ogni popolo per una civiltà non del profitto e della sopraffazione bensì dell’amore, come avrà modo di indicare anche in altri contesti.

A cinquant’anni dalla promulgazione di questa Enciclica montiniana ci sentiamo tutti interpellati su come abbiamo colto e accolto questo messaggio per smussare il divario tra i popoli dell’opulenza e quelli dell’ indigenza. Se avessimo realmente a tutti i livelli operato secondo le preoccupazioni e le indicazioni di questo documento, probabilmente il flusso tragico dei migranti non sarebbe stato di questa sconcertante portata, che ci trova impreparati e inadeguati, forse perché proprio non abbiamo a piccoli passi realizzato l’auspicata «civiltà dell’amore» indicataci da questo profeta, amico di quella fraternità evangelica e dell’umanesimo planetario di cui questa Enciclica ne è voce.

*Vicario episcopale per il laicato e la cultura – Diocesi di Trieste 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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