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“Abbiamo la ‘cardiosclerosi’, serve la rivoluzione della tenerezza”

Vatican Insider - pubblicato il 17/11/16

In un mondo dominato dalla «cultura dello scarto», c’è bisogno di una sorta di «ribellione». La «grande malattia di oggi è la “cardiosclerosi”», per questo «ci vuole una rivoluzione della tenerezza». Lo afferma papa Francesco parlando – senza leggere il testo scritto – ai dirigenti della Caritas Internationalis. Perché la tenerezza «è vicinanza, è il grande gesto del Padre verso di noi: Dio si è fatto vicino, si è fatto come noi, ecco la condiscendenza del Padre».  

Dopo il saluto del presidente Caritas, il cardinale Luis Antonio Tagle, il Pontefice rivela: «Io gli ho fatto una proposta: io ho il discorso scritto, anche lui mi ha detto che voi l’avrete: una possibilità è che io legga tutto, tutti educati e me ne vado; la seconda possibilità è accomodarvi, sentire qualche riflessione vostra e fare un piccolo dialogo nel tempo che abbiamo; abbiamo scelto la seconda». L’idea di Francesco è stata accolta da un applauso; «il più coraggioso comincia», esorta Papa Bergoglio.  

Nel colloquio con i membri del consiglio di rappresentanza di Caritas Internationalis, ricevuti nella «Sala Clementina», il Pontefice prende le mosse dall’osservazione di una rappresentante per il Medio Oriente e l’Africa del nord, una signora che ha ricordato come la «consegna della tenerezza» data alla Caritas da papa Francesco nel loro primo incontro dopo l’elezione, avesse cambiato la prospettiva del loro servizio.  

Il Papa, rispondendo alla donna, dice che «oggi ci vuole una rivoluzione della tenerezza, in un mondo dove domina la cultura dello scarto, e se io scarto non so cosa sia la tenerezza». La tenerezza «è rivoluzionaria, la tenerezza è vicinanza, è il grande gesto del Padre verso di noi: la vicinanza del suo figlio, che si è fatto vicino e si è fatto uno di noi, questa – esclama – è la tenerezza del padre».

Oggi «nella messa – prosegue riferendosi all’omelia pronunciata a Casa Santa Marta – avevo letto il passo del Vangelo di un Dio che piange, piange perché si ricorda dell’amore che ha verso il suo popolo e che il popolo non riconosce, non vuole contraccambiare. E questo momento della tenerezza – evidenzia – non è una idea, è l’essenza, nostro Dio è Padre e anche madre, nel senso che lui stesso dice “se una madre dimenticasse i suoi figli, io non mi dimentico di te”, l’amore più grande è quello della madre».  

Insiste il Papa: «Tenerezza è vicinanza, e vicinanza è toccare, abbracciare, consolare, non avere paura della carne perché Dio ha preso carne umana, e la carne di Cristo sono oggi gli scartati, gli sfollati, le vittime delle guerra»; per questo «le proposte di spiritualità sono troppe teoriche, sono forme di gnosticismo».Oggi, «in questa “cultura dello scarto”, in questa ideologia del dio denaro, credo che la grande malattia è la cardiosclerosi».

Il Vescovo di Roma invita a pensare «alla Siria, entrano tanti lì, i potenti, internazionali, gente della Siria, ma ognuno cerca il suo interesse, nessuno cerca la libertà di un popolo, non c’è amore non c’è tenerezza, c’è crudeltà, dove non c’è tenerezza sempre c’è crudeltà e quello che accade oggi in Siria è crudeltà, un laboratorio di crudeltà». Il Papa ha parlato della guerra in Siria anche nell’udienza di questa mattina al patriarca della Chiesa assira d’Oriente, Gewargis III.

Nel discorso del Papa – dato per letto – è scritto: «All’apertura del Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione Papa Benedetto XVI ricordava che i due pilastri dell’evangelizzazione sono “Confessio et Caritas”; e io stesso ho dedicato un capitolo dell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium alla dimensione sociale dell’evangelizzazione, riaffermando l’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri». Ecco che «siamo chiamati ad agire contro l’esclusione sociale dei più deboli e operare per la loro integrazione. Le nostre società, infatti, sono spesso dominate dalla cultura dello “scarto”; hanno bisogno di superare l’indifferenza e il ripiegamento su sé stesse per apprendere l’arte della solidarietà. Poiché “noi che siamo i forti – dice S. Paolo – abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi”». 

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