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Tra islam e guerre, nel Sahara Occidentale a servizio del dialogo

Vatican Insider - pubblicato il 04/11/16

«Quando la Spagna nel 1975 lasciò il Sahara Occidentale, la Chiesa aveva due possibilità riguardo la Prefettura apostolica qui stabilita nel 1954: sopprimerla, dato che la maggior parte del suo popolo era composta da spagnoli che tornavano in patria, e affidarla alla giurisdizione di Rabat, o mantenerla in vita per continuare a essere un segno di pace e testimonianza in questa terra». Mario Leòn Dorado, missionario oblato di Maria Immacolata, il giovanissimo prefetto apostolico del Sahara Occidentale, nominato nel 2013, «l’età minima è 40 anni, abbiamo dovuto attendere il mio compleanno…», spiega così la scelta della Chiesa cattolica di confermare una presenza in una zona interamente islamica e tormentata da anni di conflitti e tensioni. Assieme a un confratello oblato, rappresenta il principale riferimento ecclesiale di un’area in pieno deserto, contesa da decenni dal Marocco – che la considera la sua regione più a sud – e la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica (il cui governo risiede in esilio nei campi profughi in Algeria), riconosciuta solo da paesi africani, sud-americani e asiatici e confinata dietro il muro più lungo del mondo (oltre 2700 km, disseminato di mine antiuomo), in un lembo di terra («Territori Liberati») tra Sahara occidentale e Mauritania.

Dal 2004 a El Aaiùn – capoluogo del Sahara Occidentale – scelto come Prefetto in un novero di tre oblati, storicamente presenti nell’area, Mario Dorado è ora membro della Conferenza episcopale regionale del nord Africa. A Vatican Insider spiega con passione il senso del mandato affidato alla sua Prefettura. 

«La Prefettura è stata costituita nel 1954, da papa Pio XII. Da allora la missione è cambiata molto, anche nel suo orientamento. Durante l’ultima visita Ad Limina, papa Francesco ci ha invitato a dare testimonianza del Vangelo con la nostra vita. Questa è la sfida più importante: portare la conoscenza di Gesù e del suo Vangelo attraverso la testimonianza della nostra esistenza. La Chiesa nel Sahara ha un sentimento speciale nei confronti del popolo saharawi: noi siamo l’unica istituzione a essere rimasta. Abbiamo scelto di restare fedeli alla nostra vocazione, accanto alla popolazione. Certo, la demografia negli ultimi decenni è cambiata molto. Il popolo di cultura e lingua saharawi è adesso una minoranza. La maggior parte dei nostri vicini parlano marocchino, la loro cultura e le loro famiglie sono originarie del nord. In ogni caso, noi siamo qui: una presenza leale accanto al popolo marocchino e al popolo saharawi, un segno della presenza di Cristo.  

La situazione, come è noto, è molto tesa. Uno dei problemi maggiori è che molte famiglie saharawi vivono separate dagli anni ’70 (divise dal muro praticamente invalicabile, ndr) e non è facile né economico riuscire a incontrarsi (dovrebbero affrontare un viaggio infinito attraverso la Mauritania senza la certezza dell’ingresso, ndr). Via terra, in realtà, ci separano appena 200 km, ma il territorio è pieno di mine, recinzioni, e il muro è controllato da migliaia di soldati».  

Quali sono le attività di cui si occupa la Prefettura?

«Io e il mio confratello svolgiamo tutta l’attività pastorale della Prefettura, che certamente non è molta. Siamo l’unica presenza ecclesiale ufficiale. Qui ci sono dei cristiani, ma ovviamente sono pochi, e la maggior parte sono di passaggio (soprattutto migranti), o sono qui per motivi di lavoro. Allo stesso tempo, ci occupiamo anche dell’aspetto sociale, ma in maniera molto discreta. Infine, non possiamo dimenticare la convivenza con i nostri amici e fratelli musulmani». 

A questo proposito, viviamo un momento di grandi tensioni in cui si diffonde la sensazione di uno scontro tra civiltà…

«Certo, sono tempi difficili. Prendo in prestito le parole di papa Francesco che ha detto che siamo in guerra, ma non una guerra di religione. Se chiedessimo ai musulmani di El Aaiùn e di Dakhla, la zona in cui viviamo, la stragrande maggioranza risponderebbe che l’islam è una religione di pace. La mia sensazione è che l’islam così come l’occidente, stiano vivendo un tempo di grandi tensioni interne. In molti casi l’islam è in guerra con se stesso, giorno dopo giorno muoiono decine di musulmani in attentati: sciiti, sunniti, conservatori, progressisti, radicali….È terribile. Ma anche l’Occidente è in crisi, e noi cristiani ci siamo dentro fino al collo, basta dare un’occhiata alle nostre comunità locali.  

Mi preme ricordare, però, che quando è stato sgozzato padre Jacques Hamel a Saint-Etienne-du-Rouvray, alcuni amici mi hanno fatto le condoglianze. 

Questa presunta guerra non è tra cristiani e musulmani, nasce in seno al mondo musulmano, e lo trascende, arrivando a colpire anche noi, i non musulmani. 

La nostra presenza vuole essere presenza di Cristo, della sua Chiesa, che non è diversa, in fondo, dalla presenza della Chiesa nelle altre regioni; è solo più semplice, umile e povera. Però come in qualunque altro luogo vuole essere aiuto, amore, misericordia e sostanza. Il dialogo è la convivenza del giorno per giorno. Ci sentiamo preti di strada che anche se i loro vicini non vanno in chiesa, li incontrano ogni giorno, parlano con loro delle loro vite, dei loro problemi, giocano a domino o a carte con loro, prendono un caffè (o un tè nel nostro caso…), vanno a casa loro».  

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