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“Gratia facit fidem”. L’occasione “a rischio-oscuramento” di Lund

Vatican Insider - pubblicato il 30/10/16

L’ex Primate anglicano Rowan Williams diceva che «non accade niente di interessante nella Chiesa se non per opera di Gesù». E Paolo VI, nel Credo del Popolo di Dio, ha scritto che la Chiesa «non possiede altra vita se non quella della grazia». Anche per questo la breve visita di Papa Francesco a Lund per commemorare i cinquecento anni dalla Riforma di Martin Lutero non è solo una importante parentesi ecumenica del suo pontificato, o un momento di rilievo nelle relazioni ormai parzialmente riconciliate tra la Chiesa di Roma e i «fratelli separati» luterani e riformati. La ferita della separazione si aprì quando Lutero accusò la cattolicità romana di aver creato un sistema che pretendeva di giustificare gli uomini e di salvarli facendo a meno della grazia necessaria di Cristo. La stessa pretesa si avverte anche oggi, nella predicazione e nella prassi ordinaria messe in campo da soggetti e organizzazioni ecclesiali di diversa denominazione. E lasciarsi interrogare nel presente dalle questioni chiave poste allora da Lutero sembra l’unico modo conveniente e salutare di commemorare la dolorosa frattura iniziata cinque secoli fa.  

A quel tempo, la «protesta» iniziata dal monaco agostiniano chiamava in causa la natura stessa della Chiesa e il dinamismo intimo della sua missione nel mondo. La commemorazione dei cinquecento anni dall’inizio della riforma luterana offre un’occasione preziosa a tutti i battezzati per riconoscere – come suggeriva il poeta francese Charles Péguy – che adesso più di prima la attitudine ricorrente di tanti apparati clericali consiste proprio nell’oscurare «il mistero e l’operare della grazia». Ciò che Cristo vivo opera oggi per la salvezza di tutti.  

Già alcuni anni fa lo sguardo rivolto insieme da cattolici e luterani all’epicentro da cui era partita la «scossa» della Riforma aveva dato occasione di riassaporare e riaffermare il mistero e l’operazione della grazia di Cristo come la sorgente di ogni dinamica e di ogni palpito della vita cristiana. Accadde quando la Chiesa cattolica e la Federazione delle Chiese luterane sottoscrissero la Dichiarazione congiunta di consenso sulle verità di fondo della Dottrina della Giustificazione, ripeterono insieme che «tutti gli uomini, riguardo alla loro salvezza, dipendono interamente dalla grazia di Dio», e tornarono a confessare insieme la fede comune nell’assoluta gratuità della salvezza promessa a tutti i peccatori, operata tramite il battesimo «per grazia di Dio nella fede in Cristo».  

Nel 1999, quando fu firmato ad Augusta dal vescovo Walter Kasper – allora Presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani – e dal pastore Ishmael Noko – a quel tempo Presidente della Federazione Luterana Mondiale – quel documento rappresentava il risultato più concreto raggiunto da una delle commissioni di dialogo teologico condivise dalla Chiesa cattolica con le «Chiese sorelle». Grazie al lavoro di quella Commissione, approvato anche dal cardinale Joseph Ratzinger e dall’ex Sant’Uffizio, i cattolici avevano messo da parte i loro stereotipi fallaci secondo cui la concezione luterana ridurrebbe la grazia a una mera «copertura» del peccato, incapace di operare un cambiamento reale nella vita del peccatore. E i luterani si erano liberati dei loro pregiudizi erronei riguardo alla concezione cattolica delle «opere buone», che anche nella dottrina cattolica non sono la «condizione» per ottenere la salvezza, ma solo il frutto del dono incondizionato della grazia di Cristo.  

In quel testo, si confessava che tutti gli appartenenti al genere umano, nella condizione storica segnata dal peccato originale, «non sono in grado da se stessi di rivolgersi a Dio per ottenere la liberazione, di meritare la propria giustificazione davanti a Dio o di conseguire la salvezza con le loro proprie forze». La giustificazione, l’essere «resi giusti» e liberati dal peccato, avviene «unicamente per grazia di Dio», e per sua iniziativa gratuita e incondizionata. In un documento allegato alla Dichiarazione comune, proprio per chiarire il legame tra la giustificazione «per grazia» e le opere buone, era stata inserita una frase di San Tommaso d’Aquino, quasi per riassumere il cuore di tutta la vita cristiana: «La grazia» scriveva il Doctor Angelicus nella Summa Theologica crea la fede non soltanto quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura». Così si confessava che l’opera della grazia non è necessaria solo all’inizio, come «spinta di partenza» di una scelta religiosa e morale che poi rimane affidata alla nostra volontà e alle nostre intenzioni, ma è indispensabile in ogni momento, per compiere ogni passo del cammino di una vita illuminata dal Vangelo. Come ha detto il vescovo cinese Giuseppe Li Langui, in una dichiarazione recentemente riportata dal sito vescovicinesi.net, «nella situazione in cui siamo, il Signore ci chiama a fidarci di lui, abbandonandoci a Lui, non giorno per giorno, ma minuto per minuto».  

Purtroppo gli spunti fecondi emersi nel lavoro compiuto in vista della Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla Giustificazione furono apprezzati solo nel cerchio degli interessati alle questioni ecumeniche. Ma la «primazia della grazia» ha rappresentato e rappresenta anche il punto sorgivo più intimo e prezioso della predicazione di Benedetto XVI e di Papa Francesco. Si manipola e distorce tutto quello che fa e dice l’attuale Successore di Pietro, se non si parte dalla sua continua confessione dell’opera della grazia, che «primerèa» – viene prima, come lui ripete spesso, ricavando un neologismo teologico dal dialetto di Buenos Aires – rispetto allo stesso aprirsi degli uomini alla promessa di salvezza offerta nel Vangelo. Senza incontrare nella carnalità della propria vita quotidiana l’opera della grazia – ripeteva Papa Ratzinger, e ripete Papa Bergoglio – sarebbe impossibile per gli uomini anche seguire la Legge di Dio, fare opere di carità, annunciare ad altri la salvezza operata da Cristo. Anche i riferimenti alla «Chiesa in uscita» diventano frasi fatte di un nuovo conformismo clericale, se non si prende atto che la Chiesa può «uscire da se stessa», dalla sua tentazione di autosufficienza, solo seguendo l’attrattiva della grazia. E anche le riforme nella Chiesa sono autentiche ed efficaci solo quando seguono il criterio fecondo di alleggerire pesi e strutture per non far velo al lavoro della grazia. Tutt’altro, rispetto all’eccitata auto-celebrazione dei funzionalismi mondani che invece sembra ispirare e pilotare anche certi «nuovi corsi» dell’attuale stagione ecclesiale.  

Se si riconosce che il dono della grazia «viene prima», l’umile attesa di ricevere adesso questo dono gratuito è l’unico atteggiamento conveniente, anche davanti ai processi di deforestazione della memoria cristiana. Come suggerivano già San Paolo e Sant’Agostino, senza la delectatio, l’attrattiva della grazia, anche la dottrina cristiana diviene lettera che alla lunga soffoca e uccide. Nessuna battaglia o «aggiornamento» culturale, nessuna «apologetica» neo-tradizionalista o neo-modernista può davvero riaccendere interesse in uomini, donne, ragazzi e ragazze per i quali il cristianesimo è «un passato che non li riguarda» (Ratzinger). E senza il «nuovo inizio» della grazia, – suggeriva il solito Péguy – del cristianesimo rimangono al massimo qualche spunto per conferenze, o, quando va peggio, «infami parodie». Come l’empio sciacallaggio che in queste ore sfrutta persino i crolli delle chiese di Norcia, pur di attaccare il Papa che va incontro ai fratelli luterani. Già uniti a lui, in Cristo, dalla grazia dello stesso battesimo. 

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