Nel mondo islamico europeo è stata elaborata una riflessione seria sul tema dell’integrazione e su ciò che essa implica?
«Sì. In alcuni Paesi – Francia, Gran Bretagna e Germania, ad esempio – dove gli immigranti sono presenti anche da quattro-cinque generazioni, vi sono intellettuali, scrittori, docenti universitari (penso a Tariq Ramadan, Tareq Oubru, Fethi Bensalama, Abdrennour Bidar, Omero Marongiu, solo per limitarmi alla Francia) che hanno elaborato pensieri e proposte molte significative. Si sono interrogati, hanno indagato cosa significhi essere non solo musulmani in Europa, ma musulmani d’Europa, esaminando approfonditamente molte questioni relative alla convivenza e al modo di declinare la fede islamica nel contesto occidentale. Purtroppo sono voci raramente divulgate in Europa.
In Italia, meta più recente dei flussi migratori, questa riflessione mi pare stenti ad avviarsi in modo organico, anche se non mancano alcune prese di posizione importanti. Ma si tratta di voci ignorate dai media, che non arrivano a incidere nel dibattito pubblico. C’è poi un altro elemento che va tenuto presente: nel nostro paese le giovani generazioni di immigrati musulmani scelgono nella grande maggioranza dei casi, facoltà scientifiche, raramente quelle umanistiche. Ciò li priva di quegli strumenti che servirebbero loro per giustificare in base alle fonti islamiche le loro scelte riformiste, innovative, originali in materia di fede. Si sarebbero potute creare borse di studio ad hoc, ma non si è mai investito in questo settore. È una lacuna grave, a mio parere.
Per costruire buona integrazione occorre puntare sulla scuola, che svolge un ruolo strategico nell’edificazione del legame sociale, sulle giovani generazioni, che si stanno rivelando preziose alleate, e sulla nostra cultura. Abbiamo molto da offrire e una quota consistente di immigrati, inclusi quelli musulmani, è pronta a ricevere».