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La forza di cantare Dio nel momento più triste e traumatico della sua vita

Emmanuel e Chimiary

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 07/07/16

Una fede profonda, intensa quella della moglie di Emmanuel, ucciso per averla difesa. La loro storia d'amore aveva sconfitto Boko Haram e le correnti del Canale di Sicilia

«Dio dove sei? Ho perso mio marito, un dolore incredibile. Non posso vivere senza di lui, non ci posso credere».

Alla veglia in memoria del marito Emmanuel, nella serata del 6 luglio a Fermo, Chidi Mbadi Chimiary canta in nigeriano strofe dolorosissime. Il suo strazio è indicibile. «Non ha senso stare qua, dovrei prendere la mia vita e venire da te». «Oggi sono sette mesi da quando ci siamo sposati. Come faccio a vivere senza di lui?» (The Huffington Post, 7 luglio)

LA VEGLIA DI FERMO

A ricordare Emmanuel, che come ha denunciato Chimiary è stato aggredito e malmenato per averla voluto difendere dalle offese di un uomo italiano, un cerchio di candele nel prato di fronte al Seminario e intorno tante persone, circa 500. Si stringono intorno a Chimiary arrivata dall’ospedale qualche minuto prima che la cerimonia inizi dall’ospedale (Redattore Sociale, 7 luglio).

IL CANTO DI CHIMIARY

Vestita di bianco, bianco anche il foulard che le raccoglie i capelli, sorretta da due giovani suore, Rita e Filomena, che non l’hanno lasciata un attimo da quando tutto è cambiato, nel pomeriggio di martedì 5 luglio. Seduta, tra le lacrime che non possono smettere di cadere, ascolta le parole che le vengono rivolte, quelle istituzionali e quelle della gente comune, e poi chiede anche lei di intervenire, di poter cantare per Emmanuel: una voce profonda, stanchissima e rotta dal pianto che chiede perché e dice che non vuole vivere se non può più avere il suo uomo con se.

“UNITI” DA DON VINICIO

Perché quella di Emmanuel e Chimiary è una grande storia d’amore che ha resistito alle violenza e all’orrore. Insieme, sempre insieme, sorretti l’uno dall’altra. Nel gennaio scorso era stato don Vinicio Albanesi – il fondatore della comunità di Capodarco che gli aveva teso la mano, una volta giunti in Italia ad unirli informalmente in matrimonio, con un rito antico, presso la Chiesa di San Marco alle Paludi di Fermo. Un sogno che si era avverato per i due giovani, visto che proprio per sfuggire alle violenze non erano riusciti a coronare il loro sogno di amore in Nigeria.

“NON E’ UNA RISSA FINITA MALE”

Don Albanesi spiega che non la lascerà sola, che farà di tutto perché possa riprendere i suoi studi di medicina, anche se sarà un’impresa titanica. E spiega perché insieme al Vescovo di Fermo ha deciso di costituirsi parte civile, perché non si dica che è stata solo una rissa finita male.

IL TRAUMA IN NIGERIA

Suor Rita, che ben conoscere la coppia ricorda su Vanity Fair (7 luglio): «Entrambi erano arrivati alla Comunità di accoglienza di Capodarco dopo aver attraversato il Niger, poi la Libia, infine la traversata in mare verso l’Italia. «Abbiamo fatto in modo che qui non venissero separati perché la nostra comunità è prettamente maschile ma siamo riusciti a tenerli entrambi. Erano sconvolti da tutta la violenza subita in Nigeria e durante il viaggio in Libia. Ora sognavano una vita semplice, serena».

LA PERDITA DEL BAMBINO

Durante i giorni di navigazione in mare, Chimiary ha avuto una grande emorragia che le ha portato via il bambino che aveva in grembo e che aveva tanto desiderato insieme a suo marito. «Erano molto provati per la perdita del loro figlio. Volevano averne subito un altro, costruire la propria famiglia, dimenticare il passato e continuare qui in Italia la loro vita insieme. Emmanuel in particolare era un ragazzo profondamente sensibile, entrambi ogni mattina, dopo il corso di italiano, ci aiutavano con le attività della comunità».

“RESTERA’ A CAPODARCO”

Dopo aver perso tutta la famiglia in Nigeria, a Chimiary «le è stato strappato anche l’amore della sua vita – continua suor Rita – Sta molto male, continua a ripetere che non ha più nessuno. Noi la terremo qui nella nostra Comunità, spostarla sarebbe un ennesimo trauma da cui vogliamo proteggerla, siamo noi l’unica famiglia che le resta».

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