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Il teologo Salmann: “Con il gioco impariamo il mestiere di vivere”

Vatican Insider - pubblicato il 11/06/16

«Quando vado al confessionale e confesso, quando viene una mamma o un papà giovane domando sempre: “Dimmi: tu giochi con i tuoi bambini?”. La maggioranza risponde: “Come dice Padre?” – “Sì, sì: tu giochi? Perdi tempo con i tuoi bambini?”. Stiamo perdendo questa capacità, questa saggezza di giocare con i nostri bambini». Sono parole di papa Francesco, pronunciate lo scorso luglio durante la visita in Molise. Il pontefice è tornato sull’argomento anche in altre occasioni, sempre invitando i genitori a giocare con i propri figli. Perché questa attenzione speciale riservata al gioco? Esiste una dimensione ludica dell’esistenza? Ne parliamo con il teologo tedesco Elmar Salmann, benedettino, per trent’anni docente di Teologia Sistematica e Filosofia presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo e la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Oggi, a 68 anni, risiede in Germania presso il monastero di Gerleve.  

Come tratteggiare la categoria del gioco?

«Vorrei servirmi di cinque immagini che illustrano il carattere ludico della creazione, dell’esistenza, della vita spirituale. Iniziamo con il Libro dei Proverbi: la prima creatura di Dio è la Sapienza, che gioca fanciullescamente davanti a Lui e per la quale il mondo è un giocattolo: «io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8,30-31). Tutto ha origine lì: nel libero gioco fra Dio e la creazione, che si esprime nella figura femminile della Sapienza.  

La seconda figura è quella di san Francesco e il suo guardare il mondo con altri occhi, il suo nuovo senso della nascita (ricordiamo il presepe, Greccio), della morte e della sofferenza (le stigmate). E fra nascita e morte tutto diventa simbolo e parla in modo liberante e sciolto della presenza di Dio. San Francesco si mette in gioco, si espone, nudo; e comincia a giocare la sua vita davanti a Lui: si fa giullare di Dio».  

E la terza figura?

«È Giuseppe (di cui si legge nel Libro della Genesi), così come viene narrato da Thomas Mann nel romanzo “Giuseppe e i suoi fratelli”. Mann lavorò a quest’opera per 17 anni, dal periodo della fama del premio Nobel, al tempo dell’esilio in Svizzera alla vita in California. Mann accompagna e controbilancia la nascita della serietà torva e quasi necrofila del nazifascismo con la leggerezza fanciullesca della figura di Giuseppe, il quale attraversa molte sofferenze eppure ha qualcosa di ludico, di leggero, di umoristico. Alla luce di questa figura, la creazione appare come il campo di gioco di Dio, con grande disappunto degli angeli che commentano acidamente le libere discese del Signore verso il mondo. È come se la creazione fosse un pensiero “di lusso” di Dio, qualcosa oltre il necessario, qualcosa di libero, di grazioso. E anche l’idea di Dio da parte dell’uomo (quando Abramo e Giuseppe scommettono sull’esistenza di un unico Dio) appare come un’avventura “di lusso”. Dunque la creazione come fantasia di Dio e Dio come fantasia dell’uomo: e lentamente queste idee si inverano fino a una economia che, appunto, vive del sovrappiù. 

Un’altra figura: Italo Calvino. Nelle sue “Lezioni americane”, parlando della leggerezza, afferma che l’operazione da farsi è quella di togliere i falsi pesi da tutto, dalle città, dalle biografie, e così salvaguardare il peso specifico di qualsiasi cosa, e la sua eleganza». 

Qual è l’ultima immagine?

«Il calcio: è una bellissima metafora della nostra esistenza e delle figure che ho presentato, perché è un gioco di disabili, nel quale è proibito l’uso della parte più abile di noi, la mano. Privati dello strumento più virtuoso, dobbiamo supplire con la spontaneità del gioco e con poche regole elementari: da qui nascono molta fantasia e collaborazioni inedite. Il calcio perciò come metafora del mettersi in gioco e della forza della debolezza: forse per questo è uno sport tanto popolare presso i poveri.  

Da questa breve rassegna si comprende dunque il gioco come metafora dell’uomo. Ciò naturalmente non è sfuggito né alla Chiesa né ai teologi. La liturgia ha sempre rivestito anche il carattere di gioco sacro, di un ludo davanti a Dio, con il canto: pensiamo alla figura di Davide con l’arpa, di cui parlano i salmi. Molti teologi, fra i quali Massimo il Confessore, Jürgen Moltmann, Hugo Rahner, hanno rilevato il carattere ludico del mondo nel quale ognuno è esposto, deve mettersi in gioco, stare alle regole, sviluppare la spontaneità nell’ambito di tali regole per poi un giorno uscire da questo campo e consegnarsi in altre mani».  

Nella categoria del gioco trova spazio anche l’umorismo?

«Sì: l’umorismo saltella fra la pozzanghera della vita e il cielo che si rispecchia in questa pozzanghera, fra la vastità degli orizzonti e la concretezza dell’uomo e dell’esistenza, fa vedere la piccolezza delle cose grandi e la grandezza delle cose piccole: questo è l’umorismo santo, dunque della prospettiva divina. Papa Francesco invita i genitori a giocare con i bimbi perché il gioco è la via più adeguata per introdurli in modo lieve e non torvo nel mistero del mondo. I piccoli, giocando, imparano – lentamente, ludicamente – il mestiere di vivere e il mistero della leggerezza. E vengono preservati da quell’atteggiamento dei genitori che in tedesco si dice etwas tierisch ernst nehmen, che significa: prendere qualcosa bestialmente sul serio. Quando infatti prendiamo le cose troppo sul serio precipitiamo sotto il livello dell’umano, ci riduciamo a bestie del tutto condizionate dal loro ambiente. Occorre evitarlo in nome della libertà e dignità dell’uomo. Il gioco presuppone ed è espressione di un patto fiduciale con gli altri, con il mondo, con Dio, che rende possibile una scioltezza, una sprezzatura, un’arditezza che mettono sotto scacco questa serietà bestiale». 

Pensa che la cultura occidentale contemporanea, dominata dal culto dell’efficienza, della produttività, dell’ottimizzazione delle capacità personali, sia di particolare ostacolo al gioco?

«Certamente. Oggi prevale una pedagogia efficientista: tutto è strumentalizzato in vista di un ideale astratto di maturazione, di miglioramento e ottimizzazione delle abilità personali. Gli spazi per il gioco si riducono nell’infanzia perché i genitori sono ossessionati dall’idea dell’efficienza, di far rendere il tempo dei figli. Ciò è micidiale. Gli adulti poi, dal canto loro, compensano l’efficientismo con atteggiamenti ludici e infantili che in realtà sono caricature del gioco: si vestono come ragazzini, ad esempio, oppure partecipano o guardano show che scimmiottano la nobiltà del gioco, o praticano lo sport, ma in modo iperserio. Nemmeno nella nostra epoca si può rinunciare alla dimensione ludica, solo che spesso se ne perdono la genuinità e l’autenticità». 

Qualcuno potrebbe obiettare che con queste riflessioni sul gioco non si tiene conto del dolore, delle molte sofferenze che affliggono l’uomo.

«Da un lato bisogna dire che quella del gioco è una delle metafore che si possono proporre sulla creazione e sul rapporto divino-umano. È una metafora trascurata, per questo va posta in evidenza; bisogna poi controbilanciarla con altre metafore. D’altra parte, però, occorre sottolineare che il gioco ha il tratto della leggerezza ma possiede anche un lato ombroso, un carattere agonale. Fare sul serio è parte integrante del gioco, della scommessa della vita (anche la scommessa pascaliana di un senso ultimo della vita ha qualcosa di ludico): ci si rende vulnerabili, ci si espone, nudi (come san Francesco), e si può perdere, soccombere. Qui emerge il carattere serio e abissale del gioco, che ha le sue regole e conosce anche un carattere di periglio». 

Come emerge la dimensione ludica nei Vangeli?

«Cristina Campo, nel suo libro “Gli imperdonabili”, affermava che in Gesù c’è un sorriso nascosto. Sono d’accordo. E c’è anche un lieve umorismo, una vena fanciullesca, ludica. Pensiamo al discorso della montagna, quando invita a guardare i gigli nei campi dicendo che nessuno, nemmeno re Salomone con tutta la sua gloria, veste come loro: qui c’è qualcosa di invitante, frizzante, sprezzante, sollevante. Oppure, pensiamo a quando domanda: «Cosa fate di tanto particolare quando amate solo i vostri amici? Ma questo lo fanno anche i pagani, voi avete una libertà e una scioltezza maggiori». Gesù non vuole imporre una legge, ma allarga l’invito della grazia. La serietà bestiale della vita si trasforma in un campo ludico più ampio: questa è l’operazione di Gesù in molti gesti e parole. Lui è stato bambino, adolescente, per trent’anni ha vissuto come noi, non ha fatto solo il mestiere dell’adulto riformatore della religione. Non ha scommesso solo sulla religione, ma ha mostrato spazi e retroterra ampi e promettenti.  

Una delle regole del gioco di Gesù suona così: chi perde vince («Chi vuol salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà», Mt 16,25). Questa è la regola abissale nella quale la leggerezza del gioco e la sua serietà drammatica si toccano, si salutano, si sollevano e rischiarano a vicenda». 

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