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Filippine, le Chiese chiedono a Duterte una svolta per la pace

Vatican Insider - pubblicato il 02/06/16

Autonomia e federalismo sono i passaggi chiave per fermare il risorgente estremismo islamico nel Sud delle Filippine e chiudere, dopo decenni di stallo, un reale accordo politico con i gruppi ribelli presenti sull’isola di Mindanao. Parola di Rodrigo Duterte, il nuovo presidente della Repubblica, che ha trionfato o nel voto dell’8 maggio e che si appresta a insediarsi al potere, il 30 giugno prossimo. 

Il paradosso che potrebbe avverarsi nella politica filippina è che un presidente dipinto come «guerrafondaio», o «spregiudicato dittatore» potrebbe essere quello che conduce in porto una trattativa durata decenni e chiude un questione che è tuttora una ferita aperta per la nazione. 

I presupposti sembrano esserci e i primi passi sono incoraggianti. Nei giorni scorsi, con uno dei primi atti da neoeletto, Duterte ha designato suo Consigliere al processo di pace l’esperto Jesus Dureza, che ha subito parlato di «continuità nella ricerca di una pace sostenibile tra il governo filippino e il Moro Islamic Liberation Front (MILF)», auspicando di raggiungere «buoni risultati e di costruire su ciò che è stato già fatto». Dureza ha chiesto consultazioni ad ampio raggio per tracciare una nuova tabella di marcia verso la pace. 

Va notato che Duterte è nativo di Mindanao, isola dove vive la consistente minoranza dei musulmani filippini (circa sei milioni di cittadini), ed è un politico formatosi in loco, dove ha ricoperto per 22 anni la carica di sindaco di Davao, una delle maggiori città dell’isola. 

Durante la campagna elettorale, Duterte aveva detto che avrebbe messo il conflitto di Mindanao «tra le questioni in cima alla sua agenda». Ed è stato l’unico candidato presidenziale ad aver incontrato i leader del MILF nel loro campo di Darapanan, dove ha confermato l’impegno per approvare la Bangsamoro Basic Law (la legge ferma in Parlamento, che istituisce la nuova regione autonoma), pensando alla bontà di un sistema federale, a suo parere foriero di pace e stabilità.  

Uno dei criteri di fondo, ben presente alla nuova amministrazione – che potrà essere un correttivo rispetto all’approccio precedente – è conferire un carattere maggiormente inclusivo all’accordo, coinvolgendo anche altri storici movimenti come il Moro National Liberation Front (MNLF) – tra l’altro Duterte è buon amico di Nur Misuari, presidente del MNLF – e le altre componenti della popolazione di Mindanano, come gli indigeni (detti «lumads»). 

In quest’opera, nonostante i rapporti a volte burrascosi con i vescovi cattolici – che non ne hanno appoggiato l’elezione – il neo presidente ha già incassato il pieno sostegno della Chiesa cattolica. Il cardinale Orlando Quevedo, arcivescovo di Davao, ha chiesto a Duterte di affrontare subito «il nodo della riconciliazione a Mindanao», invitandolo a «considerare la Chiesa come una forza positiva, partner per lo sviluppo nazionale» in questo campo. 

Secondo il cardinale, il federalismo è un progetto a lungo termine, che non deve distogliere lo sguardo dall’urgenza di approvare al più presto la Bangsamoro Basic Law, elaborata dopo decenni di conflitto, arenatasi prima dell’approvazione del Congresso, nella scorsa legislatura. 

In un recente appello, i leader religiosi delle Chiese cristiane di Mindanao, facendo proprio questo approccio, esprimono la speranza di una «pronta ripresa dei colloqui di pace», apprezzando il piano di Duterte di rilasciare un numero di «prigionieri di guerra» come misura per «rafforzare la fiducia tra le parti».  

Auspicando una capillare «consultazione con tutti i gruppi interessati nel territorio», il Forum ecumenico di Mindanao, che include i vescovi cattolici e di altre confessioni, offre a Duterte piena collaborazione: «Le Chiese sosterranno gli sforzi del presidente. Siamo disposti ad aiutare con qualsiasi mezzo a nostra disposizione, per raggiungere l’obiettivo della pace». 

«Concludere il processo di pace assicurerebbe stabilità nazionale e questo aumenterebbe il consenso verso il presidente», nota a Vatican Insider Alberto Quattrucci, delegato della Comunità di Sant’Egidio, parte del gruppo di Ong che agiscono come «gruppo di contatto» nel negoziato tra le parti.  

«Si tratterebbe del presidente che fa la cosa giusta, dopo decenni di occasioni mancate. Se Duterte portasse a termine il processo di pace, avrebbe molte garanzie di essere seguito dall’opinione pubblica, compresa quella di Manila», tradizionalmente la più scettica. «In tal modo – osserva Quattrucci – guadagnerebbe la reputazione di uomo giusto al momento giusto». E il paese ne avrebbe tutto da guadagnare.  

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