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Sul figlio di divorziati che ha spezzato l’ostia: già San Paolo spiegava come accostarsi all’Eucaristia

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Flickr/Fr Lawrence Lew, O.P./Creative Commons

suor Maria Gloria Riva - La nuova Bussola quotidiana - pubblicato il 19/10/15

Il problema è delicato e il fatto che ci sia di mezzo un bambino, immagine dell’innocenza, lo rende ancora più delicato. Mi riferisco all’episodio che ha scosso i sentimenti di milioni di persone: il bambino, figlio di separati che, dopo aver ricevuto per la prima volta l’Eucaristia, sottrae alla particola che ha sulla mano due pezzetti e li offre ai genitori, comunicandoli.

Non è difficile in questo caso cedere al sentimento e lasciarsi impietosire riguardo al bambino e al suo pio desiderio, ma la di là della piena e sincera compassione rispetto alla circostanza sorgono alcune lecite domande.

Abbiamo avuto la gioia di preparare diversi bambini al sacramento della Comunione e molti non avevano alle spalle famiglie regolari. La domanda subitanea che nasce di fronte a un tale fatto è semplice: chi ha preparato (e com’è stato preparato) questo bambino al Sacramento? Perché il vero abuso non è tanto il fatto che il Comunicando abbia offerto la particola a due divorziati, cosa che forse poteva capire fino a un certo punto, quanto il fatto che il bambino si sia permesso di dare la comunione (come fosse un ministro straordinario dell’Eucaristia) a due persone le quali, con tutta probabilità, non erano adeguatamente preparate con la confessione a riceverla. Persone cioè che si sono trovate “di fatto” a comunicarsi senza aspettarselo.

Il problema della comunione ai divorziati/separati non si può affrontare sulla base dei sentimentalismi o di una pietà generale, soprattutto perché dietro la parola «divorziati» si celano situazioni diametralmente opposte fra loro. E se tutti i divorziati registrano una separazione con il sacramento del matrimonio che hanno ricevuto a suo tempo, è pur vero che non tutti i sacramenti amministrati possano dirsi validi. Tant’è che la Chiesa non permette il divorzio ma attesta la nullità del sacramento.

Inoltre il fatto del bambino pone altre questioni, come appunto la liberalità con la quale i fedeli oggi possono trattare l’Eucaristia, o la preparazione stessa alla ricezione del Sacramento.

Non credo sia tramontato quello che soltanto dieci anni fa affermava Giovanni Paolo II nella Ecclesiae de Eucharistia: «A questo dovere (di confessarsi) richiama lo stesso Apostolo con l’ammonizione: “Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice” (1 Cor 11,28)». San Giovanni Crisostomo, con la forza della sua eloquenza, esortava i fedeli: «Anch’io alzo la voce, supplico, prego e scongiuro di non accostarci a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta. Un tale accostamento, infatti, non potrà mai chiamarsi comunione, anche se tocchiamo mille volte il corpo del Signore, ma condanna, tormento e aumento di castighi». Allo stesso modo il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1385) afferma: «Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla comunione».

Dunque commozione o simpatia per il bambino, sentimenti da me condivisi nel più profondo dell’animo, la verità deve restare salda: al fine di una degna ricezione dell’Eucaristia «si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale» (Ecclesia de Eucharistia 36).

Nessun bambino può essere educato a distribuire a proprio piacimento l’eucaristia in modo indebito, perché la pena non cade sul povero ragazzo che segue, naturalmente, i suoi giusti sentimenti, ma cade su chi l’ha preparato ai sacramenti e su chi, presente al gesto, non è intervenuto con prontezza e decisione.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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