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Lubitz avrà potuto guardare al Cielo?

Andreas Lubitz

© Public Domain

Paola Belletti - La Croce - Quotidiano - pubblicato il 09/04/15

A qualche giorno dalla strage del copilota Germanwings, un pensiero all'ultimo istante della sua vita

Pare amasse le Alpi.
Le Alpi francesi.
Sto sciacallando la vita di una persona, dei pochi sconnessi e ora pare anche contraddittori particolari che sono a disposizione qua e là su web, per ragionarci sopra.

Lo faccio a freddo. Un po' per il fatto che succedono troppe cose già in casa mia, un po' perché è meglio, molto meglio per me. Ho bisogno di tempo.

Mi serve tempo, qualche giorno per far passare l'onda alta del turbamento condiviso, la fretta di capire e giudicare. Per lasciare esaurire l'effervescenza del mio animo e di quelli altrui che disturba il campo di osservazione. Perché la scena del crimine non è solo quella esteriore del disastro ma è proprio l'anima, la mia.

E' spaventoso a dirsi, ma tutti noi abbiamo in essa gli stessi bulbi. Quelle cipolle che sembrano essere sparite nella terra dura dei mesi invernali e invece all'improvviso con il caldo e l'acqua fanno sbocciare fiori mostruosi. Con il caldo della rabbia, della superba solitudine, della disperata e titanica opposizione al bene. Con l'acqua delle frustrazioni che qualcuno dentro di sé decide siano insopportabili.

Ma questo dettaglio davvero mi ha colpito. Che amasse le Alpi francesi e facesse spesso lì le ore di volo necessarie ad ottenere il brevetto.

Andreas Lubitz, il ragazzo che prima della cabina di comando dell'Airbus ha chiuso udito, diaframma, cuore, stomaco, tutto se stesso alla commiserazione, alla commozione, alla simpatia per gli altri umani, quel ragazzo lì, amava le Alpi. Almeno così racconta di lui un amico.

Sula strada mi imbatto spesso come tutti in piccoli segni votivi, in omaggi per qualche caro deceduto tragicamente: i fiori (di plastica…scoloriti. Che tristezza provo), foto che ritraggono il ragazzo vivo e sorridente come non dovesse morire mai ricoperte da buste, anch'esse plastificate, fissate su un tronco o su un sasso, appena fuori della carreggiata.

Proprio lì. In quel punto. Lì, dove la persona si è schiantata con la macchina ormai sua prima bara ed è morta.

Non so, mi è spesso capitato di immaginare la linea dell'auto che esce di strada e va a sbattere contro un albero, un muro, un palo come il punto di intersezione con l'aldilà.

Qui, lì, insomma in un punto preciso e non in un altro. Una formula matematica di rette secanti per tradurre su carta lo sgomento di un uomo amato da qualcuno almeno che lì e non altrove smette di respirare.

Che paura la morte. Che paura il pensiero del momento della morte. E per quanto riguarda la storia, tragica, dell'Airbus tedesco, non ci sono parole bastanti. Si può solo stare attoniti come davanti a un affresco dell'assurdo. Non abituiamoci, se non a riconoscere che il cuore dell'uomo, e quindi anche il mio e il tuo, porta in sé la radice del male più crudele.

Quante vite e storie soffocate. Quante vite rimaste a soffrire per quelle tolte. Insieme con la sensazione che ne sarebbe bastato uno, uno solo un po' più vicino a questo ragazzo, uno soltanto un po' più amico a ricordargli che le Alpi erano belle anche per lui e doveva restare. E magari ad ammonirlo che come ci è impossibile metterci al mondo così ci è impossibile estirparci dall'essere. E anche che abbiamo il più terrificante dei poteri: dire a Dio “non ti voglio”. O peggio: “Ti odio e odio gli altri. Vorrei distruggere Te, schiaccio me e loro”.

Ripenso ad Andreas, faccio fuori tutte le notizie sulle indagini, guardo i volti degli altri morti e non so fare altro che un'Ave Maria. Più di una (a maggior ragione se si fosse lasciato sedurre da ideologie islamiste di guerre sante perché se caccio Dio dal mio cuore arriva dell'altro).

Prega per noi peccatori ora e là nel punto in cui la morte ci prenderà. Santa Madre di Andreas e di tutti i ragazzi e gli uomini e le donne, le cantanti liriche e le consulenti, la neaolaureata e il manager e il papà, l'inviato iraniano e il suo collega, il comandante che ha usato l'ascia con tutta la sua forza e l'equipaggio di hostess e stewart.

Santa Maria. Ora e nell'ora, ora e in quell'ora. In quell'ora di allora e in quel punto preciso. L'avrà fatto. Avrà pregato e prega ancora.

E noi?
Abbiamo già superato il tempo fisiologico di shock per la tragedia, di ricerca delle cause, di riflessione esistenziale? Abbiamo già scavalcato tutto, come i rottami?
Un po' credo di sì perché la vita incalza e ci chiama. Un po' perché si accampano sui nostri schermi altre notizie. Andiamo in massa ad ammutolirci per altro. E forse anche a normalizzare l'orrore. Succede oggi, è successo l'altro ieri. Domani ancora. Come un fenomeno di abituazione inaccettabile.

Ma Andreas. L'anima di Andreas.
Vorrei parlarne più a lungo e più a lungo ancora farmi promemoria reciproco di preghiera di intercessione per essa e per tutte le altre associate con sadica casualità al destino della sua. Al destino terreno. Quello ultra no, non si fa. Non spetta a nessun Andreas.
Ad Andreas piacevano le Alpi francesi.
Poi in lui ha vinto il male. La voluttà del male per il male, forse. Il gusto infantile dell'annientamento, della distruzione a favore di telecamera.
“Tutti mi vedranno distruggere. Anche solo con l'occhio della mente tutti nel mondo per un dato momento penseranno a me che ho meditato quest'impresa e l'ho portata a compimento. E avranno paura”.

E forse avrà vinto in noi anche quello strano godimento di guardare la rovina altrui, di godersi lo spectaculum della perversione di un altro che distruggendosi distrugge.
Trascinare 149 altri da sé nel proprio morire è capriccio angosciato di un adulto non cresciuto. Di uno che non si è convertito ancora alla realtà e non si è scoperto creatura; e ha continuato a dire “io sarei anche ok, ma gli altri, tutti, non sono ok. Li anniento con me. Così gli altri che restano mi guarderanno, penseranno tutti a me”. Perché non si è fatto una domanda ancora? Perché non si è detto: “e quindi? E allora?”. Ma soprattutto: “E poi?”.

“Che ne sarà di me?”.

Non lo sentiva in fondo a sé un sasso? Qualcosa di piccolo, smussato ma duro? Il suo io? E quello è per sempre. Io credo che ognuno in fondo a se stesso sappia che è per sempre. Peccato davvero, poveri noi davvero dovesse capitarci di ricordarlo solo ad un millimetro dalla roccia impassibile.

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