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La terza età, una tappa unica per arrendersi alla verità

Anciana bella – it

© Petr & Bara Ruzicka / Flickr / CC

Anciana

Encuentra.com - pubblicato il 16/03/15

La terza età è un tempo per fare i conti, di verità messa a nudo, di esame di coscienza. La debolezza della vecchiaia è la sua forza più grande

Più del sole meridiano splenderà la tua vita, l'oscurità sarà per te come l'aurora. Ti terrai sicuro per ciò che ti attende e, guardandoti attorno, riposerai tranquillo (Giobbe 11, 17-18)

Essere anziani implica il fatto di aver vissuto una vita lunga, di trovarsi alla fine di un lungo viaggio, forse troppo stanchi. La terza età è anche un'epoca di congedi. Le cose e gli affanni ci abbandonano. Anche le persone care che se ne sono andate prima di noi.

La terza età è l'anticamera naturale della morte e del giudizio divino; anticamera, secondo il progetto di Dio, della gioia e del riposo eterni.

Non si può dimenticare, tuttavia, che la vecchiaia appartiene ancora al tempo del pellegrinaggio terreno. È quindi un tempo di prova, tempo per fare il bene, tempo per coltivare il nostro destino eterno, tempo di semina.

Non si può concepire la terza età come un'epoca facile della nostra vita. Ai lavori propri del pellegrinaggio sulla terra – la vita umana è questo – si sommano la progressiva perdita delle forze, l'inerzia di quanto si è fatto in precedenza, i difetti caratteristici della vecchiaia contro i quali è necessario lottare, gli inconvenienti che pone questo nostro secolo così disumano.

Invecchiare è inevitabile, ma non si può essere un buon anziano – e servono tanto – senza molta grazia di Dio e senza una continua lotta personale. Per questo, la vecchiaia, che è tempo di serena raccolta di frutti, può essere anche un'epoca di naufragi.

Si attribuisce al generale De Gaulle la descrizione amara per la quale “La vecchiaia è un naufragio”. La frase è a volte assai giusta. Non è solo un naufragio delle forze fisiche o una diminuzione progressiva delle stesse forze morali – intelligenza e volontà. È un naufragio di tutto l'uomo.

Diciamo che nella vecchiaia si può rivelare con tutte le sue forze – e senza fasciature pietose che lo nascondano – il naufragio di tutta una vita.

Tante volte lo strepitoso crollo morale della vecchiaia mostra che si è naufragato nell'adolescenza, nella giovinezza, nella maturità. Gettati nella corrente della vita, si è cercato di immagazzinare, come il coccodrillo, i piccoli pezzi raccolti in sordide battute di caccia, e l'unica cosa che fa il passare del tempo è diffondere l'odore della putrefazione.

In opposizione all'adolescenza – che è un periodo di promesse e di speranze, un tempo in cui l'illusione sfuma i confini delle cose e delle azioni –, la terza età è tempo per fare i conti, di verità messa a nudo, di esame di coscienza. E in questo risiede non poco della sua utilità e della sua grandezza. Diciamo che la debolezza stessa della vecchiaia è la sua maggiore forza, e a uno sguardo cristiano uno delle attrattive principali.

E non è che sia accettabile la concezione heideggeriana dell'uomo come un essere-per-la-morte, un essere che raggiunge la realizzazione nella propria distruzione. Si lasci questo concetto a quanti concepiscono l'uomo come un essere vomitato con l'amarezza di chi si crede figlio del caso e non di un'onnipotente e amabile saggezza creatrice.

L'uomo non è frutto del caso. La sua stessa struttura materiale è stata delineata dalla saggezza amorevole del Creatore; Dio gli ha infuso un'anima immortale, capace di conoscere e di amare trascendendo ciò che è effimero, capace di desiderare una vita e un amore eterni. L'uomo è stato creato per vivere, e non per invecchiare o morire.

E tuttavia la stessa debolezza della vecchiaia – che è un male, in quanto carenza di vita – è la sua forza più grande. Sono ormai lontani i sogni dell'adolescenza e i deliri della gioventù, e l'anziano può affrontare la realtà con una sobrietà e un realismo superiori a quelli delle altre epoche della vita.

Diventa così più facile scoprire con una nuova nitidezza ciò che è importante e ciò che non lo è, distinguere quello che è fugace da quello che resta.

La vecchiaia appartiene al ciclo vitale umano. Anticamera della morte, prepara all'incontro definitivo con Dio, a quel giudizio divino che ricadrà su tutta la nostra esistenza.

La debolezza inerente alla vecchiaia aiuta a spogliarsi di ogni affanno vano, di ogni stupida superbia. Se nel corso dell'esistenza l'uomo superficiale ha potuto dimenticarsi della sua umile origine, dell'idea per cui è stato creato ed è una debole creatura, la vecchiaia gli offre un'ottima opportunità per tornare al senso comune, alla contemplazione delle realtà elementari.

La vecchiaia favorisce il compimento di quella prima regola dell'ideale apollineo “conosci te stesso”, espressione che nel suo senso iniziale voleva dire “conosci i tuoi limiti, la tua condizione mortale rispetto agli immortali, per non ribellarti contro di loro”.

In definitiva, la vecchiaia è un buon periodo perché Dio continui a colmare quel desiderio supplichevole che formulava Sant'Agostino: Domine, noverim me, noverim te – che conosca me e che conosca Te, Signore.

La terza età è un periodo per raccogliere frutti e un tempo di semina. Non è un “bene”, Dio l'ha permessa, perché da lei possono sorgere beni superiori. Il dolore, la solitudine, la sensazione di impotenza diventano spesso un imprescindibile collirio per curare gli occhi dell'anima e aprirli alle realtà trascendenti. Anche la vecchiaia è sotto la mano provvidente e amorevole di nostro Padre Dio.

La medicina divina è energica, ma l'uomo continua a essere uomo e libero: può non approfittarne. È possibile che chi ha naufragato durante tutta la vita naufraghi anche in quest'ultima epoca, già vicina all'ultima battaglia tra il peccato e Dio, in cui si gioca la sorte eterna.

Il processo di involuzione, iniziato con il primo peccato e che è andato accelerandosi – in genere per pigrizia e superbia –, può continuare ad avanzare, e l'egolatria terminare in un lamento sterile per l'idolo caduto. Avanzerebbe così, quasi inesorabilmente, verso l'indurimento totale del cuore, precursore dell'inferno.

La vecchiaia, come ogni epoca della vita, può essere vissuta bene o vissuta male, ma è un'epoca forse faticosa – quale non lo è? – in cui Dio ci aspetta, ci assiste, bussa alla porta del nostro cuore, e nella quale la risposta delle nostre decisioni libere conta più di quanto a volte sospettiamo.

La terza età non è un'epoca vuota o inutile. È un'epoca di lotta ascetica, di eroismo, di santità. Malgrado la decadenza fisica, la grazia di Dio ringiovanisce l'anima con forze soprannaturali, rendendo la santità tanto accessibile quanto nell'adolescenza.

Dicevamo, però, che a uno sguardo cristiano la vecchiaia ha un fascino speciale, come l'infanzia, la malattia o la povertà. In effetti, se ogni uomo è Cristo, i deboli lo sono in modo speciale. Dio, che è misericordioso con tutte le sue creature, prova una tenerezza speciale per quelle più indifese.

I malati, i bambini, gli anziani, sono in modo speciale Cristo stesso che ci viene incontro. Risuonano con forza eterna le parole del Maestro nella descrizione del giudizio finale: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero (…) nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato (…). In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25, 34-40).

Gli anziani costituiscono in realtà una parte importante del tesoro umano e soprannaturale dell'umanità intera. L'epopea picaresca di un mondo disumanizzato – prezzo inerente all'ateismo – si sforza di sottolineare che gli anziani sono un peso, sottolineandone i difetti.

A questo triste materialismo edonista c'è solo un giogo che non sembra insopportabile: la schiavitù dei piaceri denaturalizzati in una frenesia sempre più insaziabile.

Non è vero che gli anziani sono inutili o rappresentano un peso difficile da sopportare, anche se a volte la loro debolezza materiale li trasforma in occasione perché gli uomini e la società intera pratichino con loro la virtù della carità nel compimento di alcuni dolci doveri che quasi sempre derivano da stretta giustizia.

Loro, invece, apportano tanto con la loro presenza! Ci hanno dato molto quando si trovavano nel pieno delle forze; ce lo danno ora, al tramonto della loro vita, con la loro presenza venerabile, con la sofferenza silenziosa, con la parola accogliente. Privare l'umanità degli anziani sarebbe barbaro quanto privarla dei bambini. Dio conta sugli anziani per il bene di tutti noi. Sono utili in tante cose umane; sono utili soprattutto nell'aspetto soprannaturale. Fanno parte del Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa, e lo arricchiscono con la loro santità, con la loro preghiera, con i loro sacrifici. Se nessuna vita è inutile agli occhi di Dio, men che meno può esserlo quella di coloro che soffrono a livello fisico o morale. Queste vite, in cui si riflette con speciale vigore la Croce di Cristo, acquisiscono agli occhi di Dio un rilievo e un valore inesprimibili!

Gli anziani, vivificati dalla grazia di Dio, possono esercitare quel “sacerdozio reale” di cui parla San Pietro (1 Pt 2, 5 ), offrendo la propria vita – uniti a Cristo – come azione di grazie, come impetrazione, come riparazione. La vita, allora, si nobilita, e l'anima scopre orizzonti di universalità insospettati. Si può verificare quanto sia vera questa affermazione di monsignor Escrivá de Balaguer: “Se senti la Comunione dei Santi – se la vivi –, sarai con gioia uomo penitente. E capirai che la penitenza è gaudium etsi laboriosum – allegria, anche se laboriosa –, e ti sentirai alleato di tutte le anime penitenti che sono state, sono e saranno” (Cammino, n. 548).

La terza età è tempo di sofferenza, tempo di santità, tempo di fare il bene. È anche tempo di congedo; e nei congedi in genere si dicono le cose più importanti. La vecchiaia non è – non può essere – tempo di abbandono per ciò che si riferisce all'aiuto umano e soprannaturale agli altri. Anche se le circostanze sono cambiate, restano nella sostanza gli stessi doveri e gli stessi legami che abbiamo acquisito durante tutta la vita. Nessuno può ricordare i propri genitori, già anziani, senza commuoversi. Quando la morte ce li strappa, proviamo un irreparabile senso di perdita, ci fa male essere orfani, anche se sappiamo che sono in cielo. Non è solo la sensazione logica di aver perso la terra nella quale affondavamo le nostre radici; è, al di sopra di questo, la chiara convinzione che con loro se ne è andato l'affetto più disinteressato, che abbiamo perso la nostra migliore custodia. Ci rendiamo conto, forse troppo tardi, che malgrado la loro invalidità erano il nostro più grande tesoro, che con la loro presenza ci facevano molto bene. Ci conforta la sicurezza che, ora in modo invisibile, continuano a custodirci dal cielo, che conserviamo gli stessi vincoli, ora più cari e benefici. E ci resta l'orgoglio che in nessun momento, neanche in quelli della loro maggior prostrazione, sono stati inutili. Il loro volto amato, solcato dalle rughe di tante sofferenza, è ora una di quelle piccole luci che illuminano perennemente la notte della nostra vita. Con la loro mano – che un tempo ci ha insegnato a camminare – e con quella di Santa Maria, che è Madre dell'Amore Splendido, del timore, della scienza e della santa speranza, possiamo imparare – anche nella nostra stessa vecchiaia – le lezioni che sono quelle che più importano, quelle che orientano tutta la vita verso il suo vero centro: verso quella Bellezza, quella Bontà e quel Potere perenni del nostro Padre-Dio; verso quella fecondità dello spirito che non viene meno quando il vigore della carne muore.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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