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Mio zio Paolo VI

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Archives CIRIC

Città Nuova - pubblicato il 20/10/14

Un ritratto inedito dai nipoti di Montini

di Aurelo Molé

Paolo VI è stato un grande papa e un grande italiano che ha attraversato tutto il secolo breve e ha saputo coniugare l’universalità del pontificato con le proprie radici e identità italiane. È stato definito un papa moderno, intuitivo, profetico e domenica 19 ottobre, a conclusione del Sinodo della famiglia, papa Francesco lo beatificherà in piazza San Pietro.

Paolo VI è stato il primo pontefice del Novecento a viaggiare in aereo, a varcare i confini italiani, a raggiungere tutti i continenti, a subire un attentato in diretta tv, a riaprire la strada del dialogo con la Chiesa ortodossa. A Paolo VI è toccato gestire l’utopia di Giovanni XXIII, traghettare nel mondo la Chiesa del Concilio, riformare la Curia vaticana, mantenere la rotta nella tempesta del ‘68, affrontare un’opinione pubblica spregiudicata. Guardare in faccia la sporca guerra del Vietnam. Gli toccò assistere alla morte dell’amico di sempre, Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse.

Nato a Concesio nel 1897, secondo di tre fratelli mantenne sempre un legame particolare con la sua famiglia, un affetto manifestato in innumerevoli occasioni.

Fausto Montini è l’ultimo dei sette figli di Ludovico, il fratello maggiore di Giovanni Battista Montini. Paolo VI è lo zio di primo grado. Tra i ricordi più toccanti, il giorno dell’elezione. «Nel giugno del 1963 ‒ ricorda Fausto Montini ‒ mi trovavo a Milano perché facevo pratica legale come avvocato. Mi trovavo in un parcheggio quando un posteggiatore mi disse che al Conclave per eleggere il nuovo papa c’era stata la fumata bianca. In famiglia non si pensava affatto che mio zio potesse essere eletto, anche se a mente fredda le possibilità c’erano. Mio zio qualche giorno prima del Conclave era passato da casa per salutarci e non pensava affatto al papato, tanto che ci disse che ci saremmo visti presto. Arrivo a casa e la tv annuncia il suo nome. Squilla il telefono. È mio padre che chiamò tutti e sette i figli chiedendo di inginocchiarci e recitare il Credo. Squilla il campanello di casa, prima finisco la preghiera, dietro la porta trovo una folla di giornalisti».

Qualche giorno dopo si trova a Roma per l’incoronazione e solo allora si rende conto che qualcosa è cambiato.  «Dopo la sua incoronazione ‒ prosegue Fausto Montini ‒ ho capito che era sempre un parente, rimaneva l’affetto, ma ho visto come era diventato una persona di ben altra statura. C’era la presenza dello Spirito Santo e viveva in una altissima dimensione spirituale. Ci siamo resi conto ancora di più di non dovere interferire con la vita e la scelta dello zio. Non solo non dovevamo interferire, ma mantenere il riserbo, limitare al massimo la nostra presenza perché non avevamo nessun diritto e privilegio per sopravanzare gli altri».

Marco Montini è figlio di Giorgio, il primogenito di Ludovico. Paolo VI è, quindi, zio di secondo grado. Vivendo a Roma è stato l’unico parente che ha potuto assistere alla sua morte. «Ero a casa ‒ ricorda ‒perché era domenica. In agosto mio padre si trovava come di consueto a Ponte di Legno con i nonni. Mi chiamò nel tardo pomeriggio don Macchi, il segretario del papa, dicendomi che il Pontefice stava molto male. Quando arrivai a Castelgandolfo, lo zio non era più cosciente. Con i pochi presenti ci inginocchiamo e recitammo il Padre nostro. Nel momento in cui è spirato, alle 21,40, è suonata la sveglia che era sul comodino. Era una sveglia che sua mamma gli aveva regalato in gioventù e aveva sempre portato con sé. È stata una coincidenza particolare, come se la mamma gli fosse vicino».

Un ricordo tira l’altro e non si finirebbe mai più. L’importante è evidenziare come la santità di Paolo VI non è tale in quanto è stato un papa, ma per il suo esempio di vita, perché è stato un cristiano nel vivere le virtù eroiche ed è diventato, di conseguenza, un modello per tutti.

Fausto Montini vuole sfatare il mito di un Paolo mesto, com’era spesso definito: «Non era mesto come si dice. Era il papa della gioia. In privato aveva una ironia raffinata, colta, all’inglese. Gli piaceva scherzare. Ne è prova che amava circondarsi da persone allegre come padre Bevilacqua, un emiliano che combinava scherzi e burle di tutti i tipi. Un giorno disse in una predica che la predica non doveva mai superare i 5 minuti perché se dura 10 è per la vanità del predicatore, se dura 15 è per il demonio. Giovanni Battista Montini, ancora giovane sacerdote, scrisse una lettera alla mamma in cui le diceva che tornava da san Pietro dove era andato a pregare, perché a San Pietro si va anche per pregare».

Qui l’originale

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